Io, loro e Lara
Io, loro e Lara
Carlo Verdone, 2010
Fotografia Danilo Desideri
Carlo Verdone, Laura Chiatti, Marco Guadagno, Roberto Sbaratto, Angela Finocchiaro, Cristina Odasso, Sergio Fiorentini, Olga Balan, Tamara Di Giulio, Agnese Claisse, Anna Bonaiuto, Ceciclia D’Amico, Marco Giallini, Loukoula Letizia Sedrick Boupkouele, Franco Venditti, Alessandro Perfetti, Niccolò Senni, Marco Minetti, Giorgia Cardaci, Giulia Greco, Sara Greco, Claudio Pisacane, Lupo Marziale, Gianfranco Mazzoni, Dimitri Sassone, Pierluigi Ferrari, Antoinette Kapinga Mingu, Nimata Carla Akakpo, Valeria Ceci, Ernesto Fioretti, Enzo Marino Bellanich, Giacomo Giorgi, Alessandro Blasi, Danilo Maria Valli, Paolo Verdone, Guja Quaranta, Alessandro De Nipoti, Davide Mancini, Nicola Di Gioia, Teka Carneiro Kanga, Valerio Ludovisi, Mercedes Gladys Carbajal, Clive Riche.
Anche se non è un sacco bello, Io, loro e Lara strappa qualche risata e il regista si prende cura di rendere esplicita la propria morale. Verdone, trent’anni di carriera, getta la maschera e dice chiaro e tondo come la pensa. Già all’esordio, l’autore di Un sacco bello (1979), aveva schizzato alcune figure indimenticabili, ricostruite dall’osservazione del contesto quotidiano e scelte a rappresentare un evidente disgusto verso i tic del conformismo volgare e delle sottostanti compulsioni. Il successo fu dovuto (Sordi insegnava), oltre che alla bravura dell’attore, all’esplicita proposta di rispecchiamento consolatorio, specialmente supportata dal limite stesso del genere macchiettistico. Poi, man mano, Verdone si era spinto sul versante un po’ più sofisticato della commedia e la verve iniziale era andata attenuandosi. Una certa maniera di risolvere situazioni tipiche non sempre aveva retto all’impatto della regia e del montaggio, lasciando a volte sulla carta le intenzioni di comicità, nonostante il discorso sociologico si sviluppasse in una tessitura di racconto più articolata. Si sfiorò a tratti la noia. Ora il Verdone-pensiero prende la sua forma più esplicita. Carlo (Verdone) è un prete moderno, capace di confessare a se stesso la crisi di fede. S’intuisce che i motivi sarebbero tanti, ma nessuno vuole ascoltarlo. Solo una volta riesce a tirarne fuori uno: come si può tollerare, a fronte della fame e delle malattie, l’opposizione all’uso del preservativo in Africa? Il film si apre con il rientro di Carlo dal continente nero, dove per 10 anni ha operato da missionario. Viene a Roma intenzionato ad aprirsi con i superiori e a riprendere la vita normale. Non sa a cosa va incontro. Ritrova la famiglia e non la riconosce più. L’anziano padre Alberto (Fiorentini), rimasto vedovo, ha sposato Olga (Balan), la badante moldava, ed è rinato – dice – anche sessualmente. Bea (Bonaiuto) e Luigi (Giallini), fratelli di Carlo – lei analista sbrigativa, straparlante e madre di due ragazze in preda alle prigionie comportamentali e ai mimetismi del momento (tra emo, manga e pasticche in discoteca), lui cocainomane preso da miseri affari di borsa -, sono convinti che la bionda punti a ereditare la casa e comunque a prosciugare il conto in banca del povero Alberto. Tutta la lunghissima prima parte del film equivale ad una interminabile “presentazione” dei personaggi/tipi. Ciascuno parla per sé e non ascolta Carlo, il quale invano cerca di spiegare le ragioni del proprio rientro. Tra commedia degli equivoci e neorealismo situazionista si sviluppa una specie si suspense rosa, dovuta alla crescente coscienza di inadeguatezza di Carlo, sempre più «stravolto dalla follia collettiva» che lo circonda. Lo stile slow-food delle sequenze fa il paio con l’occhio indagatore di Verdone, il quale, con la sua risaputa pacatezza, registra l’assurdo e ne propone i risvolti. La vicenda sembra non poter trovare sbocco e invece entra in ballo Lara/Chiatti, chiamata forse a sostenere una parte di eccessiva responsabilità in funzione dello scioglimento della matassa sul versante etico. Lara è figlia di Olga. Sembra una ragazza alquanto disorientata e spregiudicata. In realtà sta cercando di dare un minimo di sicurezza al proprio bambino, seguita e aiutata dalla psicologa Elisa draghi (la solita Finocchiaro simpaticamente aggressiva e “folle”). Da prete moderno, Carlo resta sulla breccia per mettere ordine nell’intrigo dei giusti doveri, rischiando anche di lasciarsi troppo coinvolgere ma ritrovando poi la strada della missione. Il ritorno in Africa, salvata la famiglia, è l’esito rispettoso di un destino impegnativo verso la buona società di domani. Alla fine, ci si sente tutti più buoni e si passa sopra al modo un po’ bozzettistico di trattare certe materie di vistoso impatto attuale, come la nuova schiavitù delle ragazze nigeriane gettate nella prostituzione di strada (Carlo ci terrebbe molto a salvarle). Al dunque, commedia italiana sì ma niente corna. E senso umanitario.
Franco Pecori
5 Gennaio 2010