Revanche – Ti ucciderò
Revanche
Götz Spielmann, 2009
Fotografia Martin Gschlacht
Johannes Krisch, Irina Potapenko, Andreas Lust, Ursula Strauss, Hannes Thanheiser, Hanno Pöschl, Rainer Gradischnig, Aleksander Reljic-Bohigas.
«Una storia, non una teoria avvalorata da immagini». Detta così può sembrare un’affermazione un po’ troppo sintetica. Il senso di ciascuna delle parole usate dal regista austriaco per definire il film avrebbe bisogno di essere in qualche misura circostanziato. Ma diciamo che Spielmann abbia voluto mettere l’accento sul valore delle “immagini”, per cui la storia/situazione raccontata (il regista è anche autore della sceneggiatura) trarrebbe vantaggio sostanziale ed estetico dalla propria essenza non letteraria. Più che rispettabile l’ambizione del progettto. Quanto al risultato, pare invece evidente la prevalenza del plot nella determinazione sia del senso diciamo così lineare/primario, sia del suo portato metaforico. Un personaggio di secondo piano, o se preferite “minore”, stufo di vivere di stenti all’ombra del boss, tenta la via breve della rapina in banca per tirarsi fuori dallo squallore e andarsene con la sua bella a vivere finalmente in pace. Semplice a dirsi, ma non andrà tutto liscio. Che altro di più “normale” e stravisto? Fin qui, le “immagini” non modificano il valore dell’invenzione. Soltanto, si nota nel ritmo un andamento inconsueto rispetto all’implacabile frenesia “pubblicitaria” del cinema attuale. Tornano alla mente gli anni della normalità allusiva, dello sguardo “altro”, della cinepresa cacciatrice di dettagli oltre le intenzioni del regista, delle pause naturali e sorprendenti scaturite dall’incanto dell’obbiettivo e “perdonate” in fase di montaggio; insomma il cinema prima di Tarantino, il cinema italiano e francese, fino all'”incomunicabilità” (travisata dai più) dell’Antonioni incompreso (ancora oggi). Insomma il cinema-mito della cattura “improvvisa” del “reale” (visibile e invisibile). Passato? Certo, per chi ne possa tener conto. Ma forse e comunque ancora “a venire”, perché no? I miti, in quanto tali, hanno diritto di equivalenza. Spielmann usa parole grosse, vuole «cercare la sostanza della vita, la sua profonda essenza». Tuttavia, per la sua ricerca, è al di là delle “immagini” che troverà aiuto, nella seconda parte del film, laddove il racconto chiarisce la propria valenza di “intreccio” significativo. Siamo in un piccolo centro non lontano da Vienna. Alex, il protagonista (Krisch), soffre per il drammatico esito del colpo in banca – un poliziotto, presente per caso, ha sparato contro l’auto del rapinatore in fuga – e si rifugia nella fattoria del nonno, a spaccare legna per l’inverno. All'”inferno” morale della città (prostituzione, violenza, sfruttamento) si è sostituita la pace del bosco e del lago. E c’è una donna attraente, vicina di casa, la quale “insiste” per conoscere meglio il misterioso nipote del vecchio fattore (bravissimo Thanheiser). È, nientemeno, la moglie del poliziotto, la quale tra l’altro vorrebbe un figlio che non riesce ad avere da suo marito. Riluttante, Alex subisce una specie di aggressione del destino. Mentre continua a dividere tronchetti con un ritmo che fa da punteggiatura alla sua crisi, deve far fronte anche alla tentazione di uccidere l’uomo che gli ha rovinato la vita. Non lo farà materialmente, forse. Il film non ci dà il tempo di saperlo, ma in certi casi potrebbe bastare l’intenzione. In ogni modo, se di amletico dubbio si tratta, la sede è nell’intreccio. Colpiti dalla precisione dell’incastro che lo rende insolvibile, accettiamo il finale aperto sull'”essenza della vita”, purché non vi sia seguito.
Franco Pecori
5 Marzo 2010