Roubaix, una luce
Roubaix, une lumière
Regia Arnaud Desplechin, 2019
Sceneggiatura Arnaud Desplechin, Léa Mysius
Fotografia Irina Lubtchansky
Attori Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz, Chloé Simoneau, Betty Catroux, Jérémy Brunet, Stéphane Duquenoy, Philippe Duquesne, Anthony Salamone, Ilyes Bensalem.
“A volte, senza sapere perché tutto s’illumina”. Niente di metafisico, è il momento di riflessione del commissario Daoud (Roschdy Zem) nel bel mezzo dell’indagine sul caso dell’uccisione di una donna 83enne, strozzata e soffocata nel suo letto, probabilmente da due giovani donne, vicine di casa, amanti tra loro e dalla vita tormentata. Siamo a Roubaix, “la più povera delle città francesi”. La definizione è dello stesso Daoud, magrebino di origine. La sua famiglia lo ha lasciato solo. “Perché i suoi se ne sono andati?”, domanda al commissario il nuovo aiuto, Louis Coterell (Antoine Reinartz), giovane colto e riflessivo, il quale a tratti riflette tra sé e sé, citando perfino Yeats (“Pietà, ogni parola, è nascosta nel cuore dell’amore”). “Domanda sbagliata – gli risponde Daoud -, quella giusta sarebbe: perché sono rimasto io?”. La luce di cui parla il commissario non è casuale, è un’idea di verità, non processuale ma interna alla vita delle persone, alla loro storia e ai fatti che, più in generale, la Storia produce. Daoud indaga insieme a Coterell, immerso nel contesto di cui è ben consapevole per esserne soggetto egli stesso. Si guarda intorno e vede una città, gran parte della quale è “zona urbana sensibile”, con abitanti che vivono sotto la soglia di povertà. “Sono Polacchi, italiani, portoghesi, algerini”, spiega. “Mille anni fa Roubaix era una città con industrie prosperose, un passato di cui non si sa più nulla… Orgoglio, vergogna, non resta che la miseria, la memoria ferita di aver contato qualcosa e di non essere più niente”. Questo tipo di materia sostanzia un film che convenzionalmente si può classificare come polar (poliziesco/noir), ma che si nutre di una tensione ideale ed estetica diversamente comprensiva. L’attenzione di Daoud verso i “normali” casi di malavita non è soltanto “molto umana”, qui si tratta di un poliziotto che non risponde al genere, ma dall’interno del genere fa davvero lui la domanda ed è una richiesta di verità non prefigurata, non indirizzata a priori e però in nessun modo esterna, collaterale, incidentale. È così che “una luce” può illuminare la scena. Claude (Léa Seydoux) e Marie (Sara Forestier) non sono soltanto due indiziate, ma “testimoni di se stesse” vivono fino in fondo una complicità oggettiva, scontano una pena affettiva che riguarda la loro intima verità. Il processo che ne seguirà non ci interessa, abbiamo partecipato insieme a Daoud e Coterell, al disvelarsi di un destino doloroso quanto trasparente. Arnaud Desplechin (Racconto di Natale 2008, I miei giorni più belli 2014, I fantasmi d’Ismael 2017) non sbandiera la gestione “intima” del genere, la percorre sul binario appassionato che conduce al traguardo senza scena-madre, la vive senza l’esibizione programmatica di una regia “personalistica”. Come in Hitchcock, ci interessa non chi sia ma come sia il colpevole. Roschdy Zem impersona Daoud con perfetta discrezione, senza mai un grido e con una presenza calma, forte. Léa Seydoux e Sara Forestier arrivano alla drammatica confessione del loro delitto struggendosi in un doppio interrogatorio che batte nella memoria come un martello nel cuore.
Franco Pecori
1 Ottobre 2020