Hereditary – Le radici del male
Hereditary
Regia Ari Aster, 2018
Sceneggiatura Ari Aster
Fotografia Pawel Pogorzelski
Attori Toni Collette, Gabriel Byrne, Alex Wolff, Milly Shapiro, Ann Dowd, Mallory Bechtel, Zachary Arthur.
Non è di Spiritismo che vogliamo parlare. Non è di intelligenze incorporee. Monsieur Hippolyte Léon Denizard Rivail, conosciuto con lo pseudonimo di Allan Kardec, lasciamolo lì dove sta, nella storia della cultura francese, seconda metà dell’Ottocento, pieno Romanticismo. Il giovane Ari Aster, mossosi tra New York, Texas e Utah prima di debuttare al Sundance con questo primo lungometraggio, utilizza il referente culturale attenendosi al genere consolidato (horror “spirituale”), con prudenza e secondo una programmatica – ed esibita – dignità estetica che lo protegge dal rischio di interpolazioni critiche poco pertinenti. La vita “intima” di Annie Graham (Toni Collette, ottima interpretazione) è condizionata dal pregresso ereditario lasciatole da sua madre, convinta appassionata di spiritismo. Tenuta in sottordine per tutta una lunga prima fase dell’evoluzione familiare, l’influenza negativa della donna passata a “miglior” vita (le virgolette vogliono avere un senso forte) ormai da tempo salta in primo piano con l’incidente (vedrete) che colpisce la piccola Charlie (Milly Shapiro), figlia minore di Annie e Steve (Gabriel Byrne) – marito davvero disgraziato. La “cara” nonna avrebbe tanto voluto che la bambina fosse stata un bambino. Il trauma che ne consegue coinvolge pesantemente anche l’equilibrio del fratello maggiore, l’adolescente Peter (Alex Wolff), ma soprattutto porta a galla, nella psiche di Annie, la tematica, in lei finora sommersa, della “presenza” della vecchia dominante. L’occasione è data dall’incontro con Joan (Ann Dowd), in uno dei gruppi di sfogo in voga, laddove società avanzata e radici antropologiche si fondono in tentativi di ristrutturazione terapeutica. Si vedrà chi sia veramente Joan e l’importanza dell’iniziazione alla ritualità del tavolo rotondo e del bicchiere che si sposta per l’intervento spiritistico intenzionale. Intanto però, è ora di portare in primo piano il vero tema strutturale del film. Lo spiritismo è uno dei piatti di una bilancia/linguaggio che ha all’altra estremità il piatto del “modellismo”. Annie è una vera artista nella riproduzione in scala di oggetti e ambienti. Da quel che si vede, la donna è al lavoro per finire appunto la realizzazione di una copia dell’ambiente in cui vive ella stessa con la sua famiglia. Il rapporto “esterno/interno” è il punto centrale, estetico, anche del lavoro di regia. Il modellismo è responsabilità del linguaggio, evidenzia il confronto Realtà/Storia, insopprimibile per la comprensibilità degli eventi in generale, non solo di questo film – ogni set di qualsiasi film, se vogliamo, risponde a un’istanza di modellismo. Sicché lo Spiritismo non è il referente documentario con cui confrontarsi. L’opera di Aster richiede e suggerisce libertà dalla verosimiglianza “esterna” mentre indica, con stile misurato e internamente coerente (verosimile in sé), un livello nuovo, rinnovato, di sviluppo di un sottogenere horror. I richiami del mestiere (porte che cigolano, ecc.) lasciano il posto a implicite letture metaforiche, basate non più su assiomi immaginifici bensì sull’articolazione medesima dei materiali filmici. Tale livello di elaborazione è evidentissimo soprattutto nella prima parte del film, tanto da reggere l’urto di un finale forse troppo carico di drammatizzazioni simboliche e “risolutive”.
Franco Pecori
25 Luglio 2018