A Private War
A Private War
Regia Matthew Heineman, 2018
Sceneggiatura Arash Amel
Fotografia Robert Richardson
Attori Rosamund Pike, Jamie Dornan, Stanley Tucci, Tom Hollander, Alexandra Moen, Corey Johnson, Fady Elsayed, Raad Rawi, Jérémie Laheurte, Hilton McRae, Pano Masti, Imogen King.
L’era della comunicazione elettronica ci tiene in contatto globale, è almeno la percezione più diffusa, anche se il problema della gestione e del controllo dei mezzi si fa sempre più vivo. Ma insomma l’impressione è che ci si stia abituando anche alla guerra in forma di videogioco, terribile ma “gioco”, qualcosa che vive come rappresentazione e che non ci tocca fisicamente, fatti la cui verità è difficile da distinguere dalla “verità” del processo comunicativo. Virtuale e reale dialogano tra loro in modo ormai serrato e la difficoltà a distinguere i diversi piani delle verità pertinenti impedisce – si sospetta ragionevolmente – una piena coscienza dei fatti, di ciò che davvero accade nel mondo, non ultimi gli scenari di guerra. Mentre le forze militari si affrontano in scontri diversamente articolati, le popolazioni interessate ai conflitti, per territorio o anche indirettamente per le conseguenze economiche e socio-culturali nei diversi piani di aggressività, soffrono al limite della sopravvivenza, quando addirittura non subiscono stermini e sopraffazioni disumane. Tutto questo passa attraverso i media troppo spesso secondo indirizzi di parte che mutilano i fatti, dandone rappresentazioni colpevolmente distorte. Provocatorio e polemico il titolo del film del documentarista Matthew Heineman, esordiente nel genere narrativo. Tratto dall’articolo di Marie Brenner sulla rivista Vanity Fair dell’agosto 2012, il film ripropone la questione di quanto e in quale senso quella della protagonista possa essere considerata una “guerra privata”. Siamo nel primo decennio del secolo, le testimonianze dirette di Marie Colvin (Rosamund Pike), corrispondente di guerra per il Sunday Times di Londra, furono frutto di un impulso irresistibile e forse da indagare nelle sue ragioni personali, interne, a trovarsi nel luogo dei fatti, a esservi, a vivere le situazioni particolari e fisicamente riscontrabili nei luoghi degli scenari mediorientali; e dalle impressioni violente, spesso shoccanti, risalire a un quadro più articolato che tenesse nel giusto conto le sofferenze umane di quanti la guerra la stessero subendo quotidianamente sulla propria pelle. E fu la stessa Marie, con le proprie doti di coraggio e di sensibile curiosità umana, a mettere in gioco la propria funzione. Il film l’accompagna nei tempi e nei luoghi del rischio, della presenza essenziale per l’impatto anche emotivo procurato alla coscienza della testimone dalle singole “verifiche”. Si comincia dallo Sri Lanka, dove la Colvin viene colpita dalle schegge di un razzo durante gli scontri tra i cingalesi e le Tigri Tamil. Con una benda all’occhio sinistro la leggendaria giornalista continuerà a seguire la sua vocazione umanitaria, in contrasto con il suo capo (Tom Hollander), il quale da Londra tenta invano di frenarla. Forte l’emozione del ritrovamento di una fossa comune in Iraq, verso Falluja, con i corpi di centinaia di kuwaitiani uccisi dal regime di Saddam Hussein. Man mano le esperienze producono uno stress che diviene insostenibile e richiede un periodo di cura. Marie è visibilmente provata. La regia dedica alcune parentesi integrative per cogliere il lato umano della donna giornalista, i suoi rapporti con compagni di lavoro incontrati sul campo, la sua stessa fisicità pienamente vitale. Non sono i momenti migliori del film, fuori dalla tensione della “presa diretta” nelle scene di azione, il racconto scade in modalità alquanto prevedibili e perde in suspence. Ma poi il viaggio di Marie riprende e siamo in Afghanistan e in Libia, dove la giornalista arriva a dirne quattro direttamente a Gheddafi; e infine la Siria. Insieme al suo compagno di viaggio Paul Conroy (Jamie Dornan), fotografo freelance, Maria affronta nella città di Homs il momento più difficile e forse definitivo. Forse per un attimo avrebbe avuto la tentazione di lasciarsi vivere finalmente in maniera più tranquilla, magari accettando la relazione con l’affarista Tony Shaw (Stanley Tucci), anch’egli propenso a una meritata pausa. Ma prevale quella sorta di “dipendenza”, di voler vedere la guerra con i propri occhi. Assad sostiene che il regime siriano colpisce i terroristi, ma Marie Colvin è lì, presente sul campo, e vede ben altro. Il suo racconto – dice – è come “scrivere il proprio necrologio”. Complessivamente, il film riesce a svolgere il tema sul “costo umano della guerra” e anche a mantenere un punto dialettico, se documentare la guerra possa “cambiare davvero le cose”. Coinvolgenti le scene di azione, alquanto convenzionale il piano espressivo nei momenti di “pausa”, quando si tratta di dare alla storia di Marie la dimensione “privata”. Brava comunque l’attrice. [Festa del Cinema di Roma, Selezione Ufficiale]
Franco Pecori
22 Novembre 2018