Border – Creature di confine
Gräns
Regia Ali Abbasi, 2018
Sceneggiatura Ali Abbasi, Isabella Eklöf
Fotografia Nadim Carlsen
Attori Eva Melander, Eero Milonoff, Viktor Akerblom, Jörgen Thorsson, Andreas Kundler, Joakim Olsson.
Premi Cannes 2018, Un certain regard: Film
Siamo pronti, anche se non ne abbiamo trasparente consapevolezza, a difendere l’armatura morale che ci protegge dai pericoli della trasgressione, nostra e altrui. E tendiamo ad attribuire alla Natura aspetti della forma che ci risultano strani, tanto sgradevoli quanto inconsueti. Un elenco strutturalista di “anomalie” lungo l’arco storico rischierebbe qui di annoiare, rispetto all’occasione offertaci dal film di Ali Abbasi, regista svedese di origine iraniana. Basterà notare che Abbasi attinge al racconto Gräns (confine), di John Ajvide Linqvist (lo stesso autore, definito lo “Stephen King scandinavo”, da cui Tomas Alfredson ha tratto nel 2008 il film Lasciami entrare). Per prima cosa, siamo attratti dal comportamento della protagonista, Tina (Eva Melander), nel contesto in cui la vediamo operare come agente di dogana. La donna sembra “annusare” coloro che passano il confine e quasi mai fallisce nella scelta delle persone da fermare. Un accurato lavoro al trucco (candidatura all’Oscar 2019 per Göran Lundström e Pamela Goldammer) rende da subito vagamente “animalesco” il volto della singolare agente e ancor più eccezionale la sua dote “investigativa”. Pesano particolarmente in positivo alcune sue indicazioni, utili a scovare un importante giro di pedofilia. Il racconto sembra quindi filare lungo una traccia di genere piuttosto scontata. Ma presto il film andrà ben oltre. Vore (Eero Milonoff), uno dei viaggiatori fermati, esercita su Tina un’attrazione molto forte. I due si attirano in un modo che ci appare “primitivo”. Acquista un senso più definito anche l’abitudine della donna a inoltrarsi spesso nel paesaggio boschivo e ad immergersi nelle acque lacustri con totale goduria. Insomma tutt’altra sensazione di vita rispetto alle condizioni formali della dogana. Tutta la prima parte del film “cresce” nel senso di un accumulo fruttuoso di ambiguità estetica, un “disorientamento” formale strategico ci accompagna lungo il confine sempre più labile di una qualità umana ridefinibile. Poi, la seconda parte prende una piega spettacolare. Rientriamo in una zona di protezione che ci tranquillizza sul pericolo di un confronto dialettico tra bestialità e società, il tema della pedofilia svanisce a vantaggio del fantastico mondo delle creature provenienti dalla mitologia nordeuropea. La differenza con il film di Alfredson sta nella tensione verso una dimensione altra, mentre qui il confronto è con una fisicità propria. Si potrà dire che la medaglia è la medesima, utile per un “faccia a faccia” possibile. Staremo a vedere.
Franco Pecori
28 Marzo 2019