Il grande dittatore
The grat dictator
Charlie Chaplin, 1940
Fotografia Karl Struss, Roland Totheroh
Charlie Chapli, Paulette Goddard, Jack Oakie, Reginald Gardiner, Grace Hale.
Su Charlie Chaplin è stato scritto tanto da riempire una vasta biblioteca. La visione del “Grande dittatore” (1940), oggi, in pieno straripamento tecnologico, ha il pregio, più che della comoda conferma dell’avversione verso le dittature (lettura contenutistica), della preziosa offerta, proprio in giorni di consumo sfrenato (anche cinematografifico), di una riflessione sul valore del cinema di Chaplin. Il fatto che il “primitivo” Charlot lasci il posto al più “moderno” Hinkel/Hitler, conferma una semplice verità: il valore di Charlot è nel cinema di Chaplin. La novità dell’uso della parola non crea cesura nel metodo del regista, così come la critica del dittatore non ne valorizza, di per sé, l’esito artistico, tanto più oggi, che il punto di vista sembra scontato. Ma il film “tiene” perché tiene il cinema che ne è alla base. E cioè quel miracoloso “abitare” i suoi film, da parte di Chaplin, come disse il critico francese André Bazin. E cioè quel rapporto organico tra personaggio e oggetti, tra individuo e mondo, tra persone e “cose”; quel trattare il tutto “alla pari”, che fa del cinema di Chaplin un sublime cinema realistico. Soldato “muto” o dittatore straparlante, Chaplin vive lo spazio del suo cinema. Sempre.
Franco Pecori
20 Dicembre 2002