J. Edgar
J. Edgar
Clint Eastwood, 2011
Fotografia Tom Stern
Leonardo DiCaprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Josh Lucas, Judi Dench, Ed Westwick, Lea Thompson, Josh Hamilton, Geoff Pierson, Cheryl Lawson, Kaitlyn Dever, Gunner Wright, David Cooper, Jack Donner, Dylan Burns, Jack Axelrod, Jessica Hecht, Josh Stamberg, Christian Clemenson, Michael Rady, Ken Howard, Scot Carlisle, Jeffrey Donovan, Emily Alyn Lind, Christopher Shyer.
Non è certo un invito a rassegnarsi. Ma si vive sotto controllo, la democrazia non è un’idea astratta, il problema sono i suoi limiti. Da un regista come Eastwood ci si attende maturità. Lontano dagli slogan, come per altri aspetti dell’America, delle sue radici profonde e dei sentimenti tradizionali, l’autore di Mystic River, Million Dollar Baby, Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima, Gran Torino, Hereafter affronta senza mezzi termini ma con l’equilibrio che la materia richiede il tema spinoso del ruolo del Federal Bureau of Investigation nella vita della nazione. Il punto di vista è dello stesso J. Edgar Hoover (Leonardo DiCaprio), l’uomo che negli anni Trenta, nel pieno della grande depressione, impose all’Ufficio investigativo federale la propria impronta autoritaria, partendo dall’intento di proteggere gli Stati Uniti dai “comunisti radicali”, dal terrorismo e dalla criminalità organizzata. Edgar racconta la sua lunga carriera di capo dell’Fbi e avverte: gli storici, per lo più, «scrivono in prospettiva presente, dimenticando il contesto». Si parte dagli attentati bolschevichi del 1919 – con un Edgar ventenne -, si passa per la caccia al rapitore e uccisore del figlio di Lindberg, per la cattura dei gangster John Dillinger e George Kelly, per l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy e di Martin Luther King; e si arriva a Richard Nixon, l’ultimo presidente che ebbe a che fare con J. Edgar e che tentò invano di mettere le mani sul suo archivio segreto, conservato da sempre dalla fedele segretaria (Naomi Watts) e da lei distrutto il 2 maggio 1972, un minuto dopo la notizia della morte del capo. Personaggio complesso e discusso a tutti i livelli, Hoover schedò gli americani e indagò specialmente sulle loro idee politiche e sui loro costumi sessuali, usando tutti i mezzi che il potere gli concesse e, com’è dato credere, andando perfino oltre. «Ci fu un tempo in cui – sottolinea egli stesso con parole che sfiorano la paranoia – un americano medio temeva per la sua sopravvivenza». Ma il punto di vista è anche di Eastwood e viene specialmente fuori nelle fasi che dal versante “pubblico” volgono il film verso l’intimità del personaggio. Difficile intaccare la corazza caratteriale di Edgar, uomo dalle rigidità e dalle difese psicologiche ai limiti della patologia. Il regista sceglie di usare la chiave del rapporto con la madre. Judi Dench è perfetta nel ruolo di Anne Marie Hoover, quando la sua parte sale verso il primo piano e il dominio materno appare in tutta la sua evidenza si chiarisce anche il problema dell’omosessualità di Edgar, rimasto latente fin dagli inizi (e storicamente mai provato). Eastwood sceglie di rappresentare con l’evoluzione drammatica del sentimento per l’amico Clyde Tolson (Armie Hammer) la progressiva decomposizione dell’ “uomo più potente d’America”. Mentre di momento in momento l’importanza istituzionale del ruolo si attenua, salta agli occhi una verità “altra”, sgradevole soprattutto allo stesso Edgar. Disperato anche per la morte della madre, il capo dell’Fbi si accartoccia su se stesso e si dissolve. Le sequenze relative a questa fine sono lunghe e “penose”, trasmettono una capacità di partecipazione e insieme una lucidità di osservazione di cui solo il giusto ritmo delle inquadrature poteva dare il senso. DiCaprio, aiutato dai “miracoli” del trucco, è molto bravo a rendere l’evoluzione del personaggio nell’arco di un cinquantennio.
Franco Pecori
4 Gennaio 2012