Othon
Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou Peut-être qu’un jour Rome se permettra de choisir à son tour. Othon
Jean-Marie Straub & Danièle Huillet, 1970.
Adriano Aprà, Anne Brumagne, Ennio Lauricella, Olimpia Carlisi, Anthony Pensabene, Jubarite Semaran, Jean-Claude Biette, Leo Mingrone, Gianna Mingrone, Marilù Parolini, Eduardo De Gregorio, Sergio Rossi, Jacques Fillion, Sebastian Schadhauser.
E’ perfettamente inutile, in film come l’Othon, andare a cercare i significati nelle singole vicende o situazioni, se non arriviamo ad astrarre da queste il senso del lavoro, che non è certo di riprodurre delle “pagine di storia”. Dovremo stare attenti, invece, alla relazione – molto intensa e determinata secondo un angolo di visuale ben chiarito – che intercorre tra la “storia” (l’Impero del dopo-Nerone visto con l’occhio “artistico” di Corneille) e l’intenzionalità del regista, il quale vuole dare al proprio film il senso di un rapporto di produzione. Non la produzione di un “messaggio” trovato nella “storia” e ritrasmesso ai contemporanei tramite il cinema, bensì la spoliazione di un valore d’uso tramandato come “messaggio” e rivalutato nei secoli secondo un ordine prioritario sfavorevole agli ignoranti, qualunque fosse la causa della loro ignoranza: tramandato, cioè, dal gruppo per il gruppo, in forma chiusa, fuori dal tempo.
I problemi di Galba e di Camilla mostrano, nell’Othon di Straub/Huillet, tutto il loro tempo; sono cioè esposti secondo una valutazione dichiaratamente aggiornata: per questo è possibile misurare la distanza che li unisce a noi e leggere dunque un rapporto di lavoro laddove si era soliti cercare la “verità” dei fatti. Qui ora c’è la verità del film; un film che partecipa la sua finzione allo spettatore, non tanto per il palese smascheramento delle maschere (la lingua di Corneille detta da “stranieri” e secondo la tecnica straniante di Brecht; la continua presenza sonora della città moderna; il comportamento moderno degli attori dentro i loro costumi romani), quanto per l’impressionante concretezza del procedimento, che ne film traspare assumendo il senso di un vero esproprio (così Straub ha definito l’Othon e lo ha dedicato « al grandissimo numero di coloro nati nella lingua francese che non hanno mai avuto il privilegio di fare conoscenza con l’opera di Corneille »): a cominciare dalla terrazza di Settimio Severo sul Palatino e dalla Villa Doria Pamphili, luoghi “sacri” aperti al cinema solo per intercessione della Cultura (Moravia).
Gli intrighi di gabinetto, i raggiri matrimoniali, le beghe per la successione all’impero non sono che il referente di una incomprensione liceale di fronte alla delucidazione di una violenza, di un amore che urla, inventato (Corneille) e reinventato (Straub/Huillet), la speranza di una giustizia: «Forse un giorno Roma si permetterà di scegliere a sua volta».
Siamo nel 69, dinanzi allo sfacelo dell’Impero Romano. In un anno si susseguono una quindicina di consoli e dal 9 giugno 69 al 1° gennaio 70 si va dal suicidio di Nerone agli onori a Vespasiano, passando per i brevi regni di Galba, di Ottone, di Vitellio. A Roma, la situazione, molto confusa, è in mano ai pretoriani che spadroneggiano e scelgono gli imperatori, mentre il Senato si limita a mettersi a disposizione di ogni nuovo arrivato. Sperperi e ruberie, conflitti di sangue e adulazioni di massa; il popolo vive immerso nell’orgiastico susseguirsi di morti e di trionfi, in cui circo, teatro e vita quotidiana si confondono. Ottone è figura particolarmente ambigua (Tacito: «… Othonem, cui compositis rebus nulla spes, omne in turbido consilium, multa simul extimulabant, luxuria etiam principi onerosa, inopia vix privato toleranda, in Galbam ira, in Pisonem invidia…» – «Ottone, nessuna speranza da una situazione tranquilla, tutti nel disordine i suoi progetti, molte cose lo stimolavano, lussuria anche per un principe onerosa, povertà tollerabile appena da un privato, contro Galba l’ira, contro Pisone l’invidia…»).
Aspirante alla successione, entra in piena crisi quando Galba, imperatore in carica, adotta Pisone; per arrivare all’Impero, fa uccidere entrambi dai pretoriani. Innalzato dalla congiura, mostra a corte molte qualità e molti vizi. Intorno a lui prospera la corruzione di stato. Si può capire come, secoli più avanti, la tradizione abbia potuto vestire questo brano di storia dei panni della poesia e riproporlo, mutato in tragedia di alto tono, alle corti di altri imperi. Il 3 agosto 1664 a Fontainbleau, Pierre Corneille presentava il suo Othon; nei versi curatissimi una significativa trasformazione “culturale”: la corruzione di stato mostra il suo lato più comprensibile alle nuove classi dominanti. Othon si dimena in intrighi d’amore, tra Plautina, figlia del console Vinio, e Camilla, nipote di Galba inventata dal poeta. Plautina è la prospettiva di Ottone all’Impero: il padre può indirizzare Galba nella scelta del successore. Dunque:
«Quelli che si vede meravigliarsi di questo nuovo amore
non hanno mai ben concepito ciò che è la corte.
Un uomo quale me mal se ne distacca,
non c’è ritiro od ombra che lo nasconda
e se del sovrano il favore non è per lui,
bisogna, o che perisca, o che prenda un appoggio».
Camilla non ha speranza. I suoi sentimenti sono sconfitti dalla sete di potere di chi le è intorno. E’ in questo gioco di personaggi che trova spazio, per un solo attimo, la speranza di una forza nuova, assente dalla scena ma presente obbiettivamente nella tragedia: «Forse un giorno…».
In questo spiraglio epico s’impianta l’operazione di Straub/Huillet: per arrivare alla storia e spezzare quella catena che unisce il ruffiano del Bräutigam al Lacone dell’Othon, alla Inn di Machorka-Muff. Occorre appropriarsi del mito, destituirlo della sua intangibilità, rivelarne la parzialità. Il popolo era lontano dalla congiura di Ottone ed è lontano dagli amori di Othon; dunque, converrà far parlare la storia in prima persona. Nel film, la Camilla del terzo atto è un personaggio che dice la storia; in lei non c’è più traccia di psicologia (eppure si trattava di una storia d’amore!). La m.d.p. filma piani fissi, corretti al massimo con leggeri spostamenti all’indietro, ma sempre sull’asse. Il cinema scopre, esibisce il teatro per contraddire il realismo dei personaggi, delle loro figure fisiche, dei loro movimenti; e da questo rapporto tra finzione e vita emerge la storia. In questo senso Straub ha definito l’Othon un film politico ( «perché è proprio il contrario di un film di agitazione» ). Tolto il simbolo,tolta la psicologia, rimane la politica; fuori-campo, giacché il campo è riservato ai “fatti”. Ma il fuori-campo esiste, dice Straub, basta saperlo.
Brecht lo sa. Per questo Straub e Huillet si rivolgono a Lui. E mentre pensano al futuro, affondano la loro ricerca nel passato, fino a trovare l’origine dell’imperialismo, l’inquinamento capitalistico della democrazia. E nel successivo film (Lezioni di storia, 1972, da Gli affari del signor Giulio Cesare, di Bertolt Brecht) incontreremo Giulio Cesare, lucido nella sua corruzione, esemplare, didattico; e potremo metterlo a confronto, per stacco, con un popolo di ex artigiani, sommersi dalle automobili, in una città-cimitero in cui non c’è più respiro per un ritmo antico di traffici.
Franco Pecori, Straub/Huillet, Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi, in Il laboratorio di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, La Biennale di Venezia, 1975.
Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou Peut-être qu’un jour Rome se permettra de choisir à son tour.
Regia e découpage: Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, da Othon, di Pierre Corneille.
Fotografia: Ugo Piccone, Renato Berta.
Suono: Louis Hochet, Lucien Moreau.
Montaggio Jean-Marie Straub e Danièle Huillet.
Pettinature: Todero Guerrino.
Assistenti: Leo Mingrone, Sebastian Schadhauser, Elias Chaluja.
Interpreti: Adriano Aprà (Othon), Anne Brumagne (Plautine), Ennio Lauricella (Galba), Olimpia Carlisi (Camille), Anthony Pensabene (Vinius), Jubarite Semaran (Lucus), Jean-Claude Biette (Martian), Leo Mingrone (Albin), Gianna Mingrone (Albiane), Marilù Parolini (Flavie), Eduardo De Gregorio (Atticus), Sergio Rossi (Rutile), Jacques Fillion (primo soldato), Sebastian Schadhauser (secondo soldato).
Produzione: Straub-Huillet, Janus-Film.
Produttore: Klaus Hellwig.
Riprese: agosto-settembre 1969, a Roma (terrazza di Settimio Severo sul Palatino e Villa Doria Pamphili), con una Eclair-Coutant, 4 obbiettivi Cooke e un Nagra.
Pellicola: Eastmancolor 7254 da Rochester Usa (13.920 metri di negativo).
Durata: 83′.
Costo: 170.000 marchi (circa 29 milioni di lire).
Prima proiezione: Rapallo, 4 gennaio 1970.
* Il film, girato in lingua originale (francese) e destinato alla Televisione, suscitò un’aspra polemica tra l’autore e la Rai, a causa del rifiuto di Straub di doppiare il lavoro in italiano. Il regista scrisse, il 19 febbraio 1970, la seguente lettera agli “Uffici competenti della Rai”.
Caro Dottore, i venti milioni di telespettatori italiani, l’industria culturale o la cultura di massa sono un mito totalitario, al quale rifiuto di sacrificare doppiando Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer (Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi). Non credo alla massa, credo agli individui, alle classi sociali e alle minorità (che, come dice Lenin, saranno le maggioranze di domani). «Bisogna, dice Pierre Schaeffer della televisione francese, dapprima considerare il telespettatore come un uomo responsabile e intelligente. Ora il mondo intero fa l’inverso. Una volta per tutte si è deciso che esisteva uno spettatore banale che bisognasse neutralizzare per mezzo della distrazione. E’ la tecnica americana del “rating”. A New York, otto giorni dopo il lancio di una trasmissione, si sonda il pubblico. Se la trasmissione non ha il coefficiente voluto, essa è direttamente e semplicemente eliminata. E’ il gran numero che fa la legge. E questa assurdità sta per varcare l’Atlantico. Più televisori ci sono e più si vuole parlare a tutti in una volta. Però, è l’inverso che è vero. Più televisori ci sono, più bisogna diversificare i tipi di pubblico. L’obbiettivo non è comunque l’anestesia!»
Non soltanto in Francia, in Germania, in Olanda, in Svizzera, ma anche nella maggior parte dei paesi dell’America del Sud, la gente è abituata a vedere dei film in lingua straniera; gli italiani sono veramente il popolo più sottosviluppato del mondo?
Jorge Luis Borges scrive: «Quelli che difendono il doppiaggio ragionano (talvolta) che le obiezioni che gli si possono opporre possono opporsi, anche, a qualunque altro esempio di traduzione». Questo argomento disconosce, o elude, il difetto centrale: l’arbitrario inserto di un’altra voce e di un altro linguaggio. La voce di Hepburn o di Garbo non è contingente; è, per il mondo, uno degli attributi che le definiscono. Conviene anche ricordare che la mimica dell’Inglese non è quella dello Spagnolo.
Più di uno spettatore si domanda: giacché c’è usurpazione di voci, perché non anche di figure? Quando sarà perfetto il sistema? Quando vedremo direttamente Juana Gonzales nella parte di Grata Garbo, nella parte della regina Cristina di Svezia?
Sento dire che nelle province il doppiaggio è piaciuto. Si tratta di un semplice argomento di autorità; mentre non si pubblicano i sillogismi dei “connaisseurs” di Chilecito o di Chivilcoy, io, per lo meno, non mi lascerò intimidire. Sento anche dire che il doppiaggio è dilettevole, o tollerabile, per quelli che non sanno l’inglese. La mia conoscenza dell’inglese è meno perfetta della conoscenza del Russo; con tutto ciò, io non mi rassegnerei a rivedere Alexander Nevsky in un altro idioma che il primitivo e lo vedrei con fervore, per la nona o decima volta, sse dessero la versione originale… Peggio del doppiaggio, peggio della sostituzione che comporta il doppiaggio, è la coscienza generale di una sostituzione, di un inganno.
Una legge fascista (sulla difesa della lingua italiana!) ha fatto dell’Italia la camera a gas dei film stranieri. Perché, come dice Jean Renoir (che è l’uomo che ha meglio compreso il cinema), il doppiaggio è un assassinio: «Si tratta sempre di (sor)prendere la vita. (Sor)prendere la vita è anche (sor)prendere nell’istante la voce, il rumore. Io appartengo ancora alla vecchia scuola della gente che crede alla sospresa della vita, al documentario, che crede che si avrebbe torto di negligere il sospiro che una ragazza emette suo malgrado in tale circostanza, e che non è riproducibile».
Il mio film Les yeux ne veulent pas… (Gli occhi…) riposa precisamente su quelle cose che non sono “riproducibili” – sull’incarnazione del verbo di Corneille in ogni personaggio nell’istante, il rumore, l’aria e il vento, e sullo sforzo che fanno gli attori e il rischio che essi corrono, come funamboli, da un capo all’altro di lunghi testi difficili registrati in presa diretta – cioè nel medesimo tempo dell’immagine: in perfetto sincronismo.
Tentare di “ricostruire” questo sincronismo in studio e in italiano sarebbe non soltanto assurdo e menzognero, ma anche costerebbe settimane, forse mesi di lavoro – e si dimostrerebbe senza dubbio in molti casi impossibile.
E chi mi garantisce che questo lavoro andrebbe in onda? Sono quasi due anni che abbiamo lavorato per alcune settimane in quattro al doppiaggio in italiano del commento del mio film Chronik der Anna Magdalena Bach (ho accettato di far questo doppiaggio per la televisione e il pubblico italiano, perché era possibile, trattandosi d’un commento parlato parallelamente all’immagine), e questo film non è ancora andato in onda!
Propongo dunque di sottoporre alla televisione in agosto una versione di Les yeux ne veulent… (Gli occhi…) sottotitolata in italiano (che vorrei nello stesso tempo mostrare al festival di Venezia); se la televisione rifiuta questa versione sottotitolata, io prferisco rinunciare ai quindici milioni di partecipazione della Rai al film.
Come Giuseppe Bertolucci, «aspetto il tempo delle abitudini nuove»; credete ai miei migliori sentimenti. Jean-Marie Straub.
P.S. «L’attività artistica meno di tutte si presta al meccanico uguagliamento, al livellamento, al dominio della maggioranza sulla minoranza». Lenin.
P.S. «I nostri compagni non devono credere, che qualcosa che essi stessi non capiscono sia assolutamente incomprensibile anche alle masse». Mao Tse-Tung.
10 Settembre 1975