La complessità del senso
29 09 2023

Rohmer, autore di film moderni

 

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Jean Marie Maurice Schérer (Eric Rohmer per il cinema), nato a Nancy il 4 aprile 1920, è morto a Parigi l’11 gennaio 2010. Se n’è andato uno dei più importanti autori moderni.

Il cinema d’autore nasce, muore e rinasce nelle diverse epoche, secondo l’impegno del regista non disgiungibile dalla coscienza dello spettatore critico. Eric Rohmer è figura centrale, insieme ad altri (pochi) autori moderni, per la definizione stessa di autore cinematografico, laddove il film sia il risultato, anzitutto, di una presa di posizione morale verso il lavoro che il fare film comporta. E cioè rispetto alla coerenza – parametro essenziale nella valutazione del risultato – tra modo di lavorare nelle diverse fasi della realizzazione ed esito estetico. In questo senso, il fine non giustifica soltanto i mezzi ma li determina intrinsecamente: non sarà mai, ad esempio, che la proposta spettacolare non consista anche in un altrettanto importante destino del contenuto, intendendo con ciò che, ad esempio, la scelta di un’ottica per il ciak di un’inquadratura è già il suo contenuto. Non da sola, certo, e anzi: insieme, nel suo contenuto, che può essere volta a volta in prevalenza parlato, dialogato, azione di travolgente movimento, in camera da letto o al bar, per le vie della metropoli o in campagna, attraverso sconfinate praterie o per i vicoli di una città medievale. Se la posizione del regista, il suo sguardo, sarà coerente, non si nasconderà in un qualunquismo di genere, l’autore si offrirà allo spettatore appunto attraverso il film, con un’incidenza determinante rispetto ai sempre possibili – e a loro volta imprescindibili – connotati esterni, referenziali. E la distinzione tra cinema-spettacolo e cinema d’autore, comunque relativa e mai assoluta in quanto assoluta non può essere la morale, non è qualcosa di diverso, al dunque, dalla distinzione che possiamo verificare anche nel quotidiano, tra le persone che incontriamo, quelle che prendono su di sé la responsabilità di ciò che dicono e fanno e quelle che si lasciano investire dalla responsabilità o non-responsabilità degli altri. Rohmer ha avuto verso il cinema il rispetto che si deve avere verso il proprio lavoro, distinguendo, individuando, interpretando, dialogando. Con sensibilità e intelletto, con occhio e cuore, con delicatezza e ironia, il regista ci ha restituito non semplicemente quadri di vita reale (lungi da lui il realismo e il neorealismo), ma situazioni leggibili e non “misteriose”, tanto chiare quanto – qui il suo miracolo – non riassumibili in formule fisse. Divertente e pensoso,  ironico e non aggressivo, impegnativo in ogni momento e in ogni dettaglio della sequenza e così libero di rispettare gli attori al di là del copione, generoso nel lasciare all’inquadratura attimi ultra per un montaggio dolce, capace di cogliere un plus di senso nell’attimo del taglio. Il bello è che il cinema di Rohmer non è un cinema speciale, “a parte”. È il cinema dello stesso autore che, quando agli inizi era critico dei Cahiers du cinéma, con André Bazin, svelò a tutti (quelli che poterono e/o vollero capire) il valore autoriale nientemeno che di Alfred Hitchcock. Il che significò, nel contesto di quegli anni ’50 e ’60, poter guardare a tutto un panorama di cinema fino allora considerato non artistico – perfino il western – con nuova consapevolezza. Per Hitchcock, Rohmer fu insieme a Claude Chabrol, ma erano giorni in cui il cinema francese era animato da gente come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette. Era la Nouvelle Vague, tanto nuova che sarebbe nuova anche oggi, con tutti i rimescolamenti tsunamici e i rifacimenti manieristici che da oriente e da oltreoceano ci arrivano sulle carrozze alla moda. Si potrebbe parlare, per Rohmer, anche di capolavori, se per dare un senso alla parola non si dovesse annoiare inutilmente quanti sarà meglio, invece, che vedano i film dell’autore moderno e vivo. La lista, facile da reperire, è lunga, ma come non ricordare almeno La collezionista (1967), La mia notte con Maud (1969), Il ginocchio di Claire (1970), Il raggio verde (1986, Leone d’Oro a Venezia), Racconto d’autunno (1998). Si vedrà, tra l’altro, l’amore di Rohmer per le figure femminili, per i loro corpi che parlano. Rarità oggi. E come resistere alla tentazione di riproporre qui Gli amori di Astrea e Celadon (2007), testamento leggero.

Franco Pecori

 

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11 Gennaio 2010