La complessità del senso
29 09 2023

Charlot e il suo cinema

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Alla ricerca di spunti sistematici nella critica dei film di Chaplin

 

 

 

 

L’unanimità degli elogi da parte della critica e da parte di personalità che con il cinema non hanno a che fare professionalmente è stata impressionante in occasione della morte di Chaplin, lo scorso 25 dicembre. Ha colpito, in particolare, un certo modo di puntare diritto alla sostanza, tirando fuori il concetto di universalità, che, paradossalmente, è così poco sostanziale. Può essere significativo l’accostamento di due giudizi. Da una parte il ministro degli Interni svizzero: «I film di Charlie Chaplin si esprimono nel linguaggio universale della comicità, della sensibilità e dell’umanità»; e dall’altra, il critico cinematografico di un quotidiano: «Con Chaplin si chiude (…) il capitolo del cinema inteso come linguaggio universale» [Calisto Cosulich, Paese Sera, 27.12.1977]. Un linguaggio, spiegava Cosulich, capace di far vivere e far pervenire il messaggio a destinazione «indipendentemente dal mezzo». Sullo stesso giornale, in prima pagina, il lettore veniva invitato a «fare i conti fino in fondo con l’arte di Chaplin».

 

Così è scattata la molla della ricerca. Quale domanda porsi di fronte a tali risposte? Ci siamo ricordati del monito metodologico di Ch. Metz a non confondere, nell’analisi dei film, il piano dei significanti con il piano dei significati in termini di “forma” e “contenuto”, senza introdurre distinzioni di “forma” e di “sostanza”; per cui «il vero studio del contenuto di un film dovrebbe appunto essere lo studio delle forme del suo contenuto»; mentre «studiare la forma di un film» vuol dire prendere in esame tutto il film «adottando come pertinenza la ricerca della sua organizzazione, della sua struttura» [Ch. Metz, La significazione nel cinema, Bompiani, Milano, 1975, pp.157-8].

 

Tenuta ferma la distinzione di metodo, ciò che poi ci interessa è di vedere come avviene che il tal significante arrivi a significare il tale significato, secondo quale processo di significazione. Ecco perché la parte più stimolante della commemorazione su riportata è quell’invito a «fare i conti con l’arte» di Chaplin. E siccome studiare fa risparmiare tempo, andiamo a vedere come si sono comportati gli altri prima di noi di fronte al problema; o se almeno possiamo trovare dei segni, anche in certa misura impliciti, di una coscienza teorica nell’approccio al linguaggio chapliniano.

 

Chaplin-Charlot è stato visto sotto vari aspetti e con diverso impegno da uno stuolo di critici dagli anni Venti in poi. Nel 1955 già Glauco Viazzi raccoglieva una notevole mole di contributi eterogenei, dall’intervista al saggio critico, alla nota biografica alla semplice recensione, che davano almeno un’idea della difficoltà a orientarsi in un mare di studi, di commenti, di interpretazioni [G.Viazzi, Chaplin e la critica, Laterza, Bari, 1955]. Una tendenza di fondo poteva comunque essere individuata in una sorta di approccio globalizzante, un rapporto “culturale” con la figura di Chaplin, troppo spesso simbolizzata e tradotta in termini di visione del mondo, di giudizio sull’umanità; e quasi mai analizzata in modo circostanziato, con agganci precisi ai film, al metodo con cui Chaplin costruì i suoi lavori.

 

Dieci anni più tardi, Marcel Martin [M. Martin, Charlie Chaplin, Seghers, Paris, 1966] ha tentato, per la famosa collana Cinéma d’aujourd’hui, di fare ancora il punto su tutto ciò che di valido era stato pubblicato intorno a Chaplin. Da questa “setacciata” è uscita la proposta di tre chiavi di lettura del fenomeno Charlot: il tema dell’ebreo errante, il tema del Don Chisciotte (risalente all’americano Tyler Parker – Chaplin, last of the clowns, New York, 1947); e infine il riferimento al “buon Schweik” per un’interpretazione brechtiana di Charlot come di un «caso tipico di anti-eroe vittima di una profonda alienazione». Quest’ultima prospettiva era già suggerita da Bernard Dort, cui Cahiers du cinéma [n. 114, 1960], in un articolo – Pour una critique brechtienne du cinéma – dove Monsieur Verdoux era visto come «film esemplarmente brechtiano», appoggiandosi all’analisi che ne aveva fatta André Bazin nel 1948. Più specificamente riferita all’espressione la lettura del comportamento di Charlot, suggerita da R. Barthes. Charlie Cahplin è brechtiano perché il suo personaggio non è un proletario con una coscienza politica, è semplicemente un uomo che ha fame: «Charlot mostra al pubblico la propria cecità in modo tale che il pubblico vede insieme il cieco e il suo spettacolo. (…) Nella sua cella, vezzeggiato dai guardiani, conduce la vita ideale del piccolo-borghese americano (…), ma l’adorabile sufficienza dell’atteggiamento lo scredita completamente (…), il povero si trova continuamente tagliato fuori dalle sue tentazioni» [R.Barthes, Miti d’oggi, Lerici, Milano, 1957, pp.35-6].

 

La mitologia di Charlot ha continuato così negli anni a essere indagata principalmente nella prospettiva del contenuto, con delle analisi che, nei casi più lucidi, hanno saputo restituirci le forme di un personaggio nella sua configurazione largamente metaforica. Non vogliamo darci qui il compito di suggerire una bibliografia, che il lettore potrà trovare, per esempio, nel lavoro monografico di Giorgio Cremonini, uscito poco prima della morte di Chaplin [G.Cremonini, Charlie Chaplin, La Nuova Italia, Firenze, 1977], o nel succitato volumetto di Martin, o anche nel volume di Jean Mitry, dove sono passati in rassegna, uno per uno, tutti i film dell’autore-regista londinese [J.Mitry, Tout Chaplin, Seghers, Paris, 1972]. Cerchiamo piuttosto di cogliere, sparso nell’immenso paesaggio di carta stampata, qualche raro accenno che suggerisca approcci formali per una lettura dell’opera chapliniana motivata da un rapporto corretto e verificabile con i testi (film), in una prospettiva di linguaggio (cinema), sistematica e non evasiva. Certo il nostro lavoro non sarà esauriente, specie in questa sede; tuttavia non abbiamo voluto lasciarci bloccare da affermazioni definitive, come questa di Jean-Claude Biette, che rimprovera agli storici del cinema e a critici e scrittori di aver «scritto pagine e pagine senza mai rendere conto del genio “cinematografico” di Chaplin: a leggerli, dunque, si perderà il proprio tempo» [J.C.Biette, Trois morts, in Cahiers du cinéma, n.285, 1978]. E’ vero che uno storico come Sadoul chiude uno dei suoi lunghi capitoli su Chaplin con queste frasi, tipiche dal punto di vista del giudizio secco appena riportato: «La grande figura di Chaplin domina l’età d’oro del cinema americano. E tutta la storia del cinema americano. Il genio dell’omino è di quelli che in arte non si trovano più di una volta in un secolo. La modestia delle sue comiche non deve nasconderne la profondità e la ricchezza. Esse sono, in conclusione, lo sbocco, in una forma particolare, del grande movimento realista al quale appartengono Molière, Voltaire,, Dickens, Balzac, Tolstoi. (…) Continuatore di una grande schiatta di scrittori realisti, egli è, con ciò, fine e principio (…). Egli è forse l’ultimo dei geni individuali (…), l’ultimo degli “Umanisti”, con tutta le generosità e lo scetticismo che il termine comprende (…) [G. Sadoul, Storia generale del cinema, II, Einaudi.,Torino, 1967, p. 569]. Tornano in mente le parole del ministro degli Interni svizzero, ma sentiamo anche di dover interrogarci sul significato di quella «forma particolare» attribuita da Sadoul a ciò che egli definisce «lo sbocco del grande movimento realista» [Per inciso, ricordiamo che il riferimento a Molière risale a Louis Delluc. Cfr. il suo Charlot, Ed. de Brunhoff. Paris, 1921].

 

E allora, cominciamo a entrare nel vivo del sistema comunicativo chapliniano, seguendo Mitry, il quale, oltre ad aver scritto la monografia di cui sopra, è autore di una stimolantissima storia del cinema, le cui pagine sono piene di riferimenti al piano dell’espressione. Nel Tout Chaplin, Mitry indica due caratteri fondamentali di Charlot: quello che egli chiama il «duello con gli oggetti» e «la messa a fronte dell’individuo con un mondo assurdo e malfattore». Si tratta di indagare le modalità espressive secondo cui si realizzano tali configurazioni tematiche. Quanto agli «oggetti», Mitry parte da un’analisi a livello di personaggio, con la “torta in faccia”, che «fa meno male delle pietre» e tuttavia non è meno aggressiva, giacché «umilia l’uomo che la riceve facendogli perdere la dignità e la rispettabilità» [J. Mitry, Histoire du cinéma, vol. 2, Ed. Universitaires, Paris, 1969, p. 67] ; e arriva a mettere in relazione un certo comportamento di Charlot («non si stupisce che dello stupore ch’egli provoca») con la mancanza di coscienza delle «nozioni utilitarie e dei fini pratici secondo i quali il mondo si organizza nel nostri spirito». Ciò che Charlot vede sono soltanto le «qualità ch’egli attribuisce all’oggetto», ossia «ciò che ne può ricavare non di utile ma di immediatamente utilizzabile» [op. cit., p. 68].

 

Ancora nel suo Tout Chaplin, Mitry precisa tale contenuto attribuendo il comportamento di Charlot a un carattere ontologico della figura più che ad una “originalità” del personaggio. «Il suo modo d’essere – dice Mitry -, sebbene fondato su rapporti psicologici evidenti, traduce meno una tendenza dell’individuo che una posizione dell’essere davanti al mondo. Un carattere, certo, ma un carattere ontologico. A questo riguardo, Charlot è ben altra cosa che un “tipo” originale» [op. cit. p. 12]. In questo senso, il discorso sugli “oggetti”, relativo soprattutto al primo periodo, quello delle “comiche”, può estendersi anche alle fasi più evolute del cinema di cinema_chaplin_woman_of_paris.jpgChaplin; e in ogni modo, può concretizzarsi in un discorso sulla “messa in scena”. Mitry, riprendendo le parole di Theodore Huff, giunge a esaltare La donna di Parigi (A woman of Paris) come un «corso superiore di tecnica cinematografica ad uso dei registi e dei produttori» [J. Mitry, Histoire…cit., vol. 3 p. 114]. Nel capolavoro del ’23, la valorizzazione dei dettagli – oggetti o comportamenti particolari – traduce in linguaggio cinematografico figure letterarie come l’ellissi o la metonimia, impiegate già nel genere comico o nella commedia sofisticata, ma non ancora nel film “realista”. Sicché, La donna di Parigi «mostrò che il cinema non era “solamente” una questione di montaggio, di ritmo, di struttura formale, ma anche – e forse soprattutto – una questione di scrittura, di “composizione”. Permise ugualmente di cogliere meglio le vecchie comiche di Charlot che utilizzavano simili figure di stile in cortometraggi di cui si diceva allora che non erano che la registrazione di scene recitate e mimate senza preoccupazioni d’espressione cinematografica!» [op. cit. p. 116]. Gli esempi, com’è facile intuire, sono molti: da Charlot che imita le precauzioni della padrona ficcandosi il portamonete in tasca e assicurando la chiusura di questa con una spilla da balia così come la donna aveva chiuso a chiave tutti gli armadi all’arrivo dei pittori in casa (Charlot apprendista, orig. Work, 1915) a Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), che insieme a un compagno vede arrivare un aereo nemico, imbraccia il fucile, spara e lo spettatore segue la caduta dell’aereo sullo sguardo dei due soldati. I loro volti si abbassano fino al sussulto finale – ricordiamo l’immagine del treno che se ne va, “vista” sul volto di Edna Purviance, ne La donna di Parigi, con il ritmare dei riflessi dei finestrini e infine il ritorno della luce normale, a dirci che la partenza con Jean Miller è svanita.

 

Mantenendo il collegamento con la comicità delle gags primitive, cerchiamo altri esempi di studiosi che ci diano modo di collegare il discorso sul film a quello sul cinema di Chaplin. La messa in rilievo, da parte di Mitry, della struttura compositiva, delle comiche come dei film più complessi, dal punto di vista del genere e  della narrazione, ci fa risalire alla fondamentale analisi di Monsieur Verdoux (1947), che Bazin fece sul n. 19 della  Revue du cinéma (gennaio ’48) – ora anche nell’antologia italiana curata da Adriano Aprà per Garzanti [A. Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano, 1973]. Anche per Bazin la tecnica dell’ellissi e dell’allusione è la «rivelazione estetica» di La donna di Parigi; ma soprattutto Verdoux dimostra che tale tecnica è dovuta alla struttura del personaggio: «La regia di Chaplin non è altro che l’estensione alla macchina da presa, al découpage, al montaggio, della recitazione di Charlot» [op. cit., p. 241]. Qui Bazin sembra predire la tesi ontologica di Mitry, trasferendola anzi esplicitamente a livello di diegesi filmica [Intendiamo qui «diegesi» nel senso specificato da Étienne Souriau nella prefazione a L’univers filmique, Flammarion, Paris, 1953, p. 7: «Tutto ciò che appartiene (…) alla storia raccontata, al mondo supposto o proposto dalla finzione del film. Es.: a) Due sequenze proiettate consecutivamente possono rappresentare due scene separate, nella dieresi, da un lungo intervallo (da più ore a più anni di durata dietetica). b) Due ambienti posti l’uno accanto all’altro nel teatro di posa possono rappresentare edifici supposti distanti diverse centinaia di metri, nello spazio dietetico. c) Può capitare che due attori (…) incarnino successivamente il medesimo personaggio dietetico». Ch. Metz traduce in termini semiologici il problema della diegesi: «Come il cinema significa le successioni, le precessioni, gli iati temporali, la casualità, le relazioni avversative, la consequenzialità, la prossimità o il di stanziamento spaziale ecc.; ecco altri problemi centrali per la semiologia del cinema» (cfr. Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1972, p. 148)]]. E infatti, se dal personaggio ci trasferiamo alla messa in scena: «L’ellissi di Chaplin, che si applichi allo spazio o al tempo, non concerne, in realtà, quel che si è soliti chiamare la sceneggiatura. Riguarda il racconto soltanto nelle dimensioni della scena a contatto diretto con l’attore, nella struttura della situazione. Sarebbe difficile concepire una interdipendenza più stretta tra “fondo” e “forma”, o, piuttosto, confusione più perfetta» [A. Bazin, Che cos’è…, cit. p. 241].

 

Osservazioni così pertinenti possiamo andarle a cercare soltanto in autori che si siano occupati di film in senso teorico, per indagare le funzioni espressive dell’arte cinematografica. Generalmente, infatti, i lavori a carattere storico tendono a presentare Chaplin più sotto l’aspetto della singolarità del fenomeno che non a dar conto del fitto tessuto di codici di cui vive la personalità del regista. Per Jacobs, Chaplin è un «individualista»; per Rotha e Griffith, un «indipendente»; per Sadoul, un «ribelle», ecc. Dobbiamo risalire a Balázs per trovare cenni su quel rapporto tra “fondo” e “forma” di cui parlava Bazin. La comicità del primo Chaplin, secondo Balázs, non è da attribuire al “personaggio”, ma alla “situazione”. All’autore de Il film, evoluzione ed essenza di un’arte nuova [B. Balázs, Il film, Einaudi, Torino, 1952]. interessava cogliere la nascita e la crescita del “nuovo linguaggio” attraverso le relative variazioni della tecnica espressiva. Ecco dunque che Charlot è inserito nel contesto del muto e usato come chiave “semiologia” non solo per capire un tipo di comicità, ma per analizzare nella sua specificità un tipo di linguaggio. Ci vorranno ancora più di 20 anni prima che qualcuno avverta chiaramente i pericoli di una ricerca “teorica” sul filo della normatività (quanto tempo passato a discutere sull’opportunità “teorica” del sonoro e poi alla ricerca dello “Specifico filmico”!); tuttavia, Bálazs mostra di saper usare la chiave-Charlot nel senso giusto, ossia per aprire la porta del sistema-Chaplin, lasciando ancora bollire nella pentola il problema-cinema. Non è comunque schierato dalla parte dei puristi del muto. «La comicità del movimento – dice dunque Bálazs – trasformò una grave lacuna del cinema – la mancanza del suono – in un originale motivo stilistico: il movimento eccessivo. Da una comicità intesa come pura pantomima nacque una nuova struttura drammatica. Quella comicità non aveva bisogno né do parole esplicative né di una mimica “personalizzata”. Nasceva da una situazione, non da un personaggio» [op. cit., p. 30].

 

Mancanza di suono, mancanza di primi piani, movimento eccessivo: scelta e ristrutturazione del piano “reale” in funzione di una dieresi che crea rapporti originali non solo tra i “personaggi”, ma anche tra questi e le “cose”; anzi, i “personaggi” sono posti sullo stesso piano delle “cose”. Nella situazione-Charlot, gli oggetti, gli spazi, i tempi entrano in gioco allo stesso livello dei contenuti morali, sociali, culturali. Sotto il denominatore dell’inquadratura, interagiscono sostanze e forme secondo regole di significazione proprie del cinema. Aveva ben ragione Boris Ejchenbaum, il quale già nel 1927 avvertiva: «Qualsiasi oggetto può essere fotogenico: è solo questione di metodo e di stile (…). La fotogenia, impiegata come “potenza espressiva”, si trasforma nel “linguaggio” della mimica, dei gesti, degli oggetti, delle angolazioni, dei piani, ecc., che costituiscono il fondamento dello stile cinematografico» [B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, in G. Kraiski (a cura), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano, 1971, p. 17]. E Delluc, il quale introdusse nel 1920 il concetto di “fotogenia” e fu uno dei primissimi studiosi a occuparsi seriamente di Chaplin, tentava nel suo Charlot [L. Delluc, cit.] un’analisi iconologia della maschera (gli sembrava opera di un ritrattista del ‘500), ma non si fermava alla rassomiglianza con i piccoli quadri di Enrico III o di Francesco I: «Egli (Charlot) ha fatto ciò che è possibile solo al cinema (…): una trasposizione d’arte, Charlie è pittore come Villon fu poeta. E’ lui sotto la forma che gli è più comoda: la fotogenia. È perciò, dal punto di vista dell’immagine animata, che quest’uomo è il primo creatore completo e, in attesa di meglio, il solo».

 

Sono queste le ragioni per cui non ha molto senso porre, come qualcuno tende ancora a fare, tutto l’accento dell’arte chapliniana sulla bravura del mimo. Proprio a Chaplin ricorreva Ejchenbaum per fare un esempio di mimica “cinematografica” da contrapporre a quella teatrale. «La mimica scenica – scriveva il nostro nel saggio citato – viene percepita sullo schermo quale “recitazione forzata” proprio perché è troppo elaborata nei particolari» [B. Ejchenbaum, cit., p. 49]. La funzione semantica della mimica cinematografica poggia invece sulla proprietà del montaggio. E’ a livello del montaggio che i significati delle inquadrature si legano insieme. «La mimica tipo Chaplin o Keaton – concludeva Ejchenbaum – ottiene un effetto semantico soltanto nel cinema, in rapporto ai primissimi piani e ad altre peculiarità del montaggio» [ib.].

 

Ecco dunque che l’espressività, l’umanità, l’università di Charlot appartengono tutte a Chaplin, ossia al cinema; passano e si configurano attraverso il mezzo cinematografico, di cui non possono fare a meno. E non è solo questione di primissimi piani. Quel che conta è il rapporto stretto, non psicologico, non “indipendente” o idealistico, tra filmato e filmico: «Si pensi alla lotta contro la diabolica sedia a sdraio da cui il protagonista non riesce a staccarsi, oppure a quel suo comicissimo litigio contro la porta girevole che continua a ricacciarlo sulla strada, o, ancora, alla prima lezione di pattinaggio a rotelle, quando i pattini si ribellano a Charlot e se ne vanno per proprio conto. Il significato profondo della disarmante “incapacità” di Charlot sta in questo: la sua lotta contro la malizia dell’oggetto non rivela soltanto la natura diabolica di esso, ma trasforma gli stessi oggetti in “partners” del suo stesso valore, anzi di valore superiore» [B. Balàzs, Il film, cit., p. 31].

 

E’ a questo livello che si dimostrano inadeguati i giudizi negativi espressi nei confronti di Chaplin da studiosi diversi ma segnati dalla medesima radice idealistica, come Umberto Barbaro, il quale dovrà aspettare Un re a New York per riconoscere all’arte chapliniana una sufficiente cinematograficità (ma l’accusa è solo ideologica: individualismo e anarchismo) [U. Barbaro, Neorealismo e realismo, Editori Riuniti, Roma, 1976]; o come Jean Epstein, il quale cade nel trabocchetto di considerare il cinema un semplice strumento utilizzato da Chaplin per esprimere con più efficacia le sue doti di «mimo stupefacente, ma spesso un po’ troppo sottile per l’ottica del circo, del musica-hall o del teatro». Il capitolo di Epstein si intitolava appunto Charlot debiteur (1946). Per il critico francese «Charlot si serve del cinema, senza preoccuparsi di servirlo» [J. Epstein, Ecrits sur le cinéma, 11, Seghers, Paris, 1975, p.118]. Il suo successo «è così grande che aiuta la diffusione del cinematografo. Altrimenti, si potrebbe sostenere che Chaplin ha piuttosto utilizzato la macchina da presa per dei progressi strettamente personali e non gli è servita come mezzo di espressione» [op. cit. vol. I, p. 239]. E pensare che proprio in un esemplare movimento di macchina Balàzs individuerà la grande capacità di Chaplin di rendere significativa la relazione spazio-tempo nel film. L’esempio è tratto da Shoulder Arms, definito da Mitry «il solo film serio ispirato dalla guerra 1914-18».

 

cinema_shoulder_arms.jpgVale la pena di leggere Balàzs: «Chaplin è in fila con gli altri, in trincea, pronto per l’assalto. (…) Tanta è l’emozione che lascia cadere uno specchietto tascabile. Lo specchio si rompe. I compagni se ne accorgono e, superstiziosi, si allontanano da Chaplin, segnato da un oscuro destino. Poiché sono in fila lungo una stretta trincea, i due soldati vicino a Chaplin non possono ritrarsi molto da lui, due passi al massimo. Ma Charlot, che ha compreso perché lo fanno, li segue con lo sguardo, come se fosse stato abbandonato in mezzo al pericolo. La macchina segue il suo sguardo terrorizzato e mostra con una panoramica la distanza che aumenta fra Charlot e i compagni. La macchina si muove con tanta lentezza e impiega tanto tempo a farlo che i due passi di terreno sembrano un deserto senza fine. Ed è “questo” che Chaplin vede: il deserto (…). Mai era accaduto che in uno “spazio così ristretto” si fosse potuta esprimere tanta solitudine» [B. Balàzs, Il film, cit. pp. 162-163].

 

Altro esempio – stavolta sembra addirittura una risposta diretta a Epstein – lo troviamo in una pagine della Storia del cinema di Rotha e Griffith. A proposito di Verdoux, si dice: «Non credo sia stato mai osservato quanto completamente Chaplin – al pari di Flaherty – usi la macchina come un’osservatrice dell’azione (…). Poiché Chaplin stesso è il più delle volte la figura centrale sullo schermo, ciò ha indotto molti a pensare erroneamente che l’abilità di Chaplin nelle pantomime sia la causa del suo stesso ritmo (…). Ma una breve lettura delle scene in cui Chaplin non appare stabilisce inequivocabilmente che quel senso del ritmo scorre omogeneo per tutto il film» [P. Rotha, R. Griffith, Storia del cinema, Einaudi, Torino, 1964, p. 430]. E’ un senso del ritmo intimamente legato alla storia del cinema, per via della forma della “gag”, che sta alla radice dell’arte chapliniana e che si pone come nodo generativo di un dinamismo proprio di un’epoca, di un momento di espansione o addirittura di esplosione del linguaggio cinematografico. Il merito di Chaplin è di aver mantenuto un’unità stilistica nella costruzione delle sue storie, delle molteplici situazioni e dei diversissimi risvolti tematici. Come bene ha osservato J. H. Lawson, «la tecnica di Chaplin non offre l’originalità di montaggio e di giustapposizione di immagini che troviamo in Ejzenstejn, in Pudovkin, in Dovzenko, ma l’immaginazione visiva di Chaplin, la sua esuberante pantomima, i suoi bruschi cambiamenti di ritmo e di tono producono un’azione altrettanto vasta nell’ambito di una struttura filmica unitaria» [J. H. Lawson, Teoria e storia del cinema, Laterza, Bari, 1966, p. 346].

 

E torniamo allora al discorso della struttura compositiva, impostato fin dall’inizio con la promessa di tener sempre presente la forma “gag”, «pulsazione vitale dell’intero sistema», come direbbe Sylvain Du Pasquier, studioso appunto di questa «figura particolare del discorso filmico». Si diceva più sopra della doppia prospettiva del rapporto di Charlot con gli oggetti e con l’assurdità del mondo “nemico”. Questo rapporto è vissuto da Chaplin fino in fondo, in modo totale, proprio perché Chaplin lo realizza pienamente a livello di sistema espressivo; tanto che, secondo una felicissima parola di Bazin, il personaggio “abita” i suoi film: «La continuità e la coerenza dell’esistenza di Charlot non può evidentemente essere colta che attraverso i film che egli abita» [A. Bazin, Introduzione a una simbolica di Charlot, in Che cos’è…, p. 54].

 

“Abitare” un film è espressione molto significativa, che ci parla di un cinema la cui realtà fotografica si offre a un rapporto fisico e nello stesso tempo si tiene a un livello di astrazione artistica, legata al linguaggio e dunque a una dimensione trascendentale quanto contingente nella sua concreta utilizzabilità. Chaplin con il suo Charlot vive questa cinematograficità dell’esistenza estetica, giacché struttura un personaggio completamente disponibile di fronte al mondo, fino a farlo vivere alla pari con il contesto, fino a farlo dipendere in ugual misura da se stesso e dalle contingenze materiali. Non a caso Bazin, per trovare le «costanti interne e realmente costitutive» di Charlot, parte da quella che egli chiama la «completa mancanza di testardaggine quando il mondo gli oppone una resistenza troppo grande». Charlot non può fare altro, nel film, che trovare «una soluzione provvisoria (…), come se l’avvenire non esistesse per lui» [ib.]. E’ la provvisorietà strutturale della “gag” stessa, figura che funziona proprio perché rispetta in pieno la regola della trasgressione su cui si fonda, fino ad assumere il peso tragico di una mancanza, con tutto il cinema_monsieur_verdoux.jpgsuo valore metaforico, come nel finale di Verdoux: «Ecco Verdoux che si allontana tra i carnefici nell’alba di un cortile di prigione. Omino in maniche di camicia, con le mani legate dietro il dorso, se ne va con un passo saltellante verso il patibolo. Ed è allora la gag sublime, informulata ma evidente, la gag che risolve tutto il film: “Verdoux era lui! Ghigliottineranno Charlot”» [op. cit., p. 227]. Effettivamente, Verdoux sembra raccogliere in questa metafora anche l’essenza cinematografica della soluzione chapliniana. Si tratta di un film pieno di cinema (uso della tecnica e riferimento alle figure espressive del cinema americano). Si comincia subito con una carrellata, dalla lapide di Henry Verdoux al prato del cimitero, mentre la voce di Chaplin (fiori campo!) spiega la situazione: un procedimento astratto, che fa pensare quasi alla Nouvelle Vague (Resnais?) e ad Antonioni (movimento non per seguire l’azione, ma per dare svolgimento a un’idea). E poi, gli stereotipi dell’intelaiatura narrativa, come il succedersi di situazioni ricorrenti dal punto di vista del contenuto, segnate dagli spostamenti in treno; come la torre Eiffel per dire “Parigi”; come certe situazioni del dramma amoroso classico (le galanterie del capitano Bonjour-Verdouz); come le autocitazioni circa il rapporto con gli oggetti (basti pensare alla bilancina e alle provette di Verdoux-chimico), ecc. E la regola della trasgressione si regge appunto sulla “provvisorietà” del sistema. «La gag – dice Du Pasquier – prende come origine, come terreno d’impianto, il discorso realista o “normale” precisamente per poterlo perturbare» [S. Du Pasquier, Les gags de Buster Keaton, in Communications, n. 15, 1970].

 

La struttura significativa della “gag” chapliniana emerge con particolare efficacia appunto nel rapporto diegetico Charlot-oggetto, in cui l’oggetto ha quella “funzione utilitaria”, che è il metro su cui misurare l’inadeguatezza sociale (a livello d’integrazione) del personaggio. L’utilità malintesa, intesa secondo un senso distorto rispetto alla norma d’uso sociale, è alla base di una certa goffaggine e soprattutto della “provvisorietà” dei rapporti che Charlot riesce a stabilite con la società. Questo “universale provvisorio” poggia, paradossalmente, su forme e valori che niente devono alla sorpresa: «Questa, esaurita alla prima visione, lascia il posto a un piacere molto raffinato che è l’attesa e il riconoscimento di una perfezione» [A. Bazin, Introduzione…, cit., p. 57].

 

Perfezione. Come dire fattura. Come rimandare all’analisi del processo di significazione, al cui livello, appunto, si può cogliere l’organicità dell’arte chapliniana. Può sembrare banale, ma non lo è più, se lo diciamo in senso forte: il valore di Charlot è nel cinema di Chaplin.

 


Franco Pecori, Charlot e il suo cinema, Rivista del Cinematografo, n. 7, luglio 1978.


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1 Luglio 1978