Breve storia del cinema
* Questa mia sintetica storia del cinema è stata inserita nell’opera in tre volumi, diretta da Riccardo Scrivano, Letteratura e conoscenza, “Storia e antologia della letteratura italiana per le scuole medie superiori”, G. D’Anna ed., marzo 1988. Terzo volume: “Estetica e letteratura dall’Unità d’Italia ad oggi”. Svolti i temi letterari sui versanti della lingua (vol. I) e della cultura (vol. II), si è considerata la produzione letteraria nel contesto delle arti e delle problematiche estetiche, con alcune “finestre” in funzione interdisciplinare. In una di queste finestre ho visto il cinema nella sua evoluzione di arte/industria, secondo i risvolti che tale visione comporta nell’approccio al linguaggio e alle questioni estetiche, anche rispetto allo sviluppo delle comunicazioni di massa. Franco Pecori.
Cinema e linguaggio
Sviluppo della tecnica
Lumière e Méliès
Industria e commercio
Film di genere
Hollywood
Divismo
Televisione e nuovo cinema
Film d’autore e morte del cinema
Riflusso
Pertinenze e circostanze
Al di là del valore estetico, la figura di Godard è rappresentativa della svolta fondamentale del cinema moderno. In tutti i suoi film, da Fino all’ultimo respiro (’59) a Prénom: Carmen, Leone d’oro a Venezia nel 1983, Godard ha sempre fatto un lavoro di analisi del linguaggio, ha continuamente portato in primo piano la ricerca espressiva, partendo dalla domanda: come funziona il mezzo? Quali sono le strutture comunicative di un film? Attraverso quali processi (scelta delle inquadrature e montaggio visivo/sonoro) il cinema riesce ad avere il meraviglioso impatto con l’immaginario di vastissime platee? E da quali elementi (narrazione, tipologie psicologiche) è composto il successo di certi racconti e di certi personaggi?
Lo stesso Godard ha definito i suoi film “saggi in forma di romanzi o romanzi in forma di saggi”, ponendo così l’accento sul lavoro critico che è alla base della sua opera. Molto significativa, però, anche la dichiarazione rilasciata a Venezia, davanti ai fotografi che lo ritraevano ancora con il Leone in mano: “Si tende sempre – diceva Godard con un pizzico di ironia, alludendo forse al fatto che la giuria di quell’anno, presieduta da Gian Luigi Rondi, aveva voluto finalmente premiare il cinema “d’autore”, “impegnato”- a considerare la problematica del regista, senza pensare che dietro di lui ci sono tante figure, tutte egualmente importanti per la costruzione di un film”. Una quindicina di anni prima, dopo aver girato La cinese, Godard si era lamentato del criterio di costruzione delle moviole, fatte per visionare il film, segnarlo nei punti da tagliare ed eseguire poi la cucitura a parte, su un altro tavolo (e magari in assenza del regista). Godard è uno di quegli autori (il primo fu il sovietico Ejzenstein negli anni ’20) che hanno lavorato molto alla moviola, combinando immagine e suono, a volte in sincronia e a volte secondo criteri di contrappunto, attraverso una puntigliosa e febbrile manipolazione della pellicola; ma ciò non significa che i collaboratori (il montatore, ma anche il direttore della fotografia, il produttore, lo sceneggiatore, lo scenografo, gli attori, ecc.) perdano di importanza. Lo sforzo del regista è stato sempre, appunto, di risolvere in funzione creativa le contraddizioni del sistema produttivo. Se Ejzenstein fu il primo grande regista a porsi problemi specificamente artistici, con Godard il cinema dichiara in tutta coscienza critica il proprio dramma costituzionale, che è tensione costante di industria e arte.
Il cinema, in quanto realizzazione di immagini fotografiche in movimento proiettate su schermo, ha il primo impulso dalle ricerche nel campo della fisica. Attraverso lo studio della scomposizione del movimento (dall’inglese Faraday – 1830 – al belga Plateau – 1833, inventori di “ruote” di cartone girevoli, per l’illusione ottica dell'”animazione” dei disegni), si arriva, grazie alla fotografia istantanea su lastra di collodio (1851), alle foto animate di Ducos e Hauron (1870) e al famoso “Cavallo che galoppa”, realizzato con 24 macchine fotografiche dall’inglese Muybridge, nel 1872 a San Francisco, con i soldi del commerciante Stanford. Si passa poi alle “cronografie” su pellicola (Kodak), presentate da un altro scienziato, Marey, nel 1888 a Parigi.
Quanto ai presupposti filosofici dello “sguardo” cinematografico, si risale al meno al Quattrocento. Si pensi alla prospettiva brunelleschiana, il cui punto di vista individua nell’Uomo il fattore determinante della delimitazione dell’universo percettivo. Il percorso verso l’obiettivo della macchina fotografica e poi della cinepresa è parso lineare fino agli anni Settanta, quando sulla rivista “Cahiers du cinéma” (pubblicazione di importanza storica, per il suo ruolo fondamentale nell’avvento della “Nouvelle Vague”, da cui la decisa svolta nella concezione dell’arte cinematografica, con influenze sul cinema europeo e americano ancora presenti) il critico Jean-Louis Comolli pubblica una serie di sei articoli, a partire dal maggio ’71, intitolata Technique et idéologie (ora in italiano, Pratiche ed., Parma, 1982), dove smantella radicalmente l’idea che il cinema sia nato da un'”invenzione scientifica” e lo configura come “prodotto dell’ideologia”; ideologia del “realismo” fotografico, basato sulla “verità” della prospettiva ottica di radice umanistica. E’ un tema che va approfondito e non possiamo farlo qui. Registriamo soltanto il rapido sviluppo della tecnica di “animazione” fotografica.
Mentre la pellicola viene perforata, in modo da ottenere regolarità nello scorrimento, Edison presenta il suo kinetoscopio all’Esposizione universale di Chicago (1893). Il passaggio da Marey a Edison significa essenzialmente l’inserimento del cinema nel grande flusso internazionale dell’elettricità, controllato dalla General Electric. Edison aveva anche in mano la vendita delle pellicole. In una decina di anni, il fenomeno prende piede, le primitive “dimostrazioni” – molto riservate, in ambienti ristretti – diventano proiezioni a pagamento. Il kinetoscopio di Edison viene trasformato da Louis Lumière in un apparecchio che funziona sia da cinepresa sia da stampatrice e da proiettore. Insomma, è il cinematografo (storica la proiezione del 28 dicembre 1895, al Gran Café de Paris). Grande il successo in Europa, con invasione del mercato americano. Il fascino della sala buia e dello schermo diventerà prestissimo normale cultura contemporanea, aria da respirare. Ma sul nascere del XX secolo, è già crisi.
La ragione del successo è nella possibilità di contare su una certa ripetitività dei soggetti senza annoiare con le “solite” scene di vita quotidiana. Louis Lumière era un ex fotografo di grido. Georges Méliès era direttore di un piccolo teatro dove si tenevano spettacoli di illusionismo.
Méliès vince. Perché? E’ fabbricante di “sogni”. Lascia la strada e costruisce un teatro di posa. Il cinema si fa “trucco”. Ovviamente costoso. Solo per la prima spesa degli impianti, Méliès sborsa 80 mila franchi. E siamo nel 1897.
I meccanismi che il cinema fantastico mette in moto non sono in sé molto complessi; e la resa è spesso vistosamente ingenua. Ma dietro alle apparenze, cresce il cinema come linguaggio. Sparizioni di personaggi, sostituzioni e altri trucchi derivati dall’illusionismo si accoppiano a effetti più specificamente fotografici, come la sovrimpressione e la sovraesposizione; o cinematografici, come l’uso della macchina da presa in movimento su carrello. E soprattutto il montaggio o giunzione di diversi segmenti di pellicola riguardanti diverse riprese. Méliès lo concepisce in maniera opposta a Lumière. Non si tratta più di mettere l’una dopo l’altra le inquadrature di un “documentario”, rispettando la logica del reale; la composizione è ideale, da un ambiente si passa ad un altro saltando spesso le fasi intermedie: Cenerentola in cucina, Cenerentola al ballo. La logica è interna al racconto, il racconto è fantastico. Utilizza la pittura su grossi teloni per creare ambienti stupefacenti. Un vero e proprio Viaggio attraverso l’impossibile (1904).
Il successo di Méliès non ha il tempo di trovare stabilità. Agli inizi, il cinema consuma molto velocemente la propria esperienza. Proprio quando ebbe il maggior trionfo, con Viaggio nella luna (1902), il cineasta francese venne a contatto con la crisi, che essenzialmente era crisi commerciale.
Le pellicole non si noleggiavano ancora, si vendevano semplicemente; e ognuno poteva in pratica farne quante copie “clandestine” volesse. E così, le grandi case americane, la Biograph, la Vitagraph, la Edison, proiettarono il Viaggio nella luna con un facile guadagno, senza spese, mentre a Méliès il film era costato 1500 luigi (15 minuti di durata). Sembrava che l’arte di Méliès, il metodo della messa in scena, avesse salvato il cinema dalla condanna del vagabondaggio e degli spettacoli da fiera (le immagini in movimento lasciavano a bocca aperta i contadini, ai quali veniva portato il giocattolo “miracoloso”); a Los Angeles, il Viaggio nella luna aveva fatto aprire la prima sala di proiezione fissa. Ma Méliès non fu bravo a gestire l’impresa e fu costretto ad affidare il noleggio dei suoi film a Charles Pathé.
Pathé è commerciante e ha invenzioni geniali. I film di attualità “ricostruita”, che in Inghilterra avevano fatto la fortuna del cinema (il titolo più famoso è Attacco a una missione cinese, 1900) e avevano segnato anche importanti invenzioni di linguaggio, preannunciando il genere western, basato sulla struttura dell'”inseguimento”, Pathé li realizza in forma di “giornale filmato”, raccogliendo “corrispondenze” da ogni parte del mondo. Non più l’artigiano che fa tutto da sé, ma una vera e propria industria.
Figlio di un macellaio, Pathé aveva fatto mille mestieri, emigrando in America e tornando in Europa ancora giovane, sempre in cerca di avventure. Aveva cominciato trafficando in fonografi e solo sei anni dopo, da 350 mila franchi era passato a guadagnare 24 milioni (1907). La ditta Pathé produceva i film e li distribuiva, fabbricava pellicole e proiettori, controllava i diritti dai classici del teatro e della letteratura. Il noleggio dei film nacque in America, ma fu Pathé a concepire l’attività commerciale legata al cinema in modo globale. Tuttavia, al di là dei primati, vale il concetto.
Negli Stati Uniti, la maggiore accelerazione l’avevano avuta i baracconi da fiera, trasformati in cinematografi ambulanti e precari. Poi, dopo le prime sale nate in Inghilterra, vi fu oltreoceano una vera e propria ondata. Del 1905 è il primo cinematografo, a Pittsburg. Prezzo del biglietto, un nickel. Nel giro di un anno, si ebbero catene di cento sale. Si chiamavano “Nickel Odeons”. Tra i più grossi proprietari, un certo Fox.
Nel 1909, vi sono in America 10 mila cinema. E’ in questa dimensione che si passa all’industria del film. Che importa se una casa come la Vitagraph, saccheggiando Shakespeare, fa dire a qualcuno che gli “yankees” hanno distrutto il teatro? I produttori americani, per ovviare ai problemi dei diritti sull’invenzione delle macchine e sulla riproduzione dei singoli film (la “guerra dei brevetti”), si associano in “trust” (Biograph, Edison, Vitagraph, Essanay, ecc.), inglobando anche Pathé e Méliès. In questo modo, tutti pagano una quota e nessuno può vantare proprietà esclusive. La questione della circolazione dei film, ossia dello sfruttamento puramente commerciale sotto forma di noleggio delle pellicole, è risolta. E’ la prima tappa dello sviluppo che negli anni Trenta porterà al dominio assoluto da parte di Paramount, 20th Century Fox, Metro Goldwyn Mayer, Warner, R.K.O.
I produttori, associandosi, si controllano e riducono la concorrenza. Lo strumento più efficace sono le agenzie di distribuzione. Il meccanismo commerciale ha una profonda incidenza sulle forme espressive. Per fare un film importante, ci vogliono negli anni ’30 circa 250 mila dollari. Teatri di posa, stabilimenti du sviluppo e stampa e tutto il resto vengono noleggiati presso le grandi società. Se uno vuole fare un film da “indipendente”, per conto proprio, non ce la fa economicamente. Alle “majors” sono legate le case di distribuzione. E ogni banca, per concedere un credito cinematografico, vuole la garanzia del distributore. Dunque è la distribuzione che detta legge su come debbano essere i film. Primo: un nuovo film deve essere uguale il più possibile al precedente che ha avuto successo commerciale; e di quel tanto diverso da sembrare una novità (ma non tanto da mettere in dubbio le caratteristiche che hanno fatto incassare il precedente). In altre parole, la distribuzione punta sulla massima conferma del film di genere. Si consolida l’idea di “serie”. Si dovrà arrivare agli anni ’50 per avere una teorizzazione (da parte del critico francese André Bazin, padre della Nouvelle Vague, del cinema “d’autore” – idea che, pure, era stata alla base dell’attività dei grandi registi dell’epoca classica, dall’americano Davi Wark Griffith al russo Sergei Ejzenstein, da Charlie Chaplin ed Eric von Stroheim a René Clair e Fritz Lang, da Robert Flaherty e Friedrich Murnau a Jean Renoir, Dziga Vertov, Vsevolod Pudovkin.
Ma i grandi registi del muto (il sonoro arriva nel 1928) non avevano coscientemente operato per una politica dell’Autore. Avevano piuttosto cercato, nei diversi contesti (l’epoca dei pionieri in America, l’impressionismo e le avanguardie francesi, l’espressionismo tedesco, la rivoluzione sovietica) di imporre i propri metodi di lavoro e la propria visione artistica, nonostante i condizionamenti commerciali; o, come nel caso del cinema voluto da Lenin, nel quadro di un forte programma culturale.
A Hollywood, dove la legge del profitto è imperante, Chaplin si afferma grazie al favore del pubblico e nonostante sia sostanzialmente un “ribelle”, un indipendente. Non è tanto apprezzato per il suo modo di usare il linguaggio cinematografico (cinema di situazione, perfetta fusione tra personaggi e spazio/tempo della vicenda, comicità del movimento, mimica cinematografica ottenuta dal montaggio dei primi piani, rapporto totale con gli oggetti della scena) quanto per il successo del suo Charlot. E non sarà mai, Chaplin, veramente un divo del cinema, come invece un Douglas Fairbanks o un Rodolfo Valentino.
Quanto a Griffith, il quale aveva usato il montaggio da grande regista – pur riconoscendo il debito a Méliès: “Devo tutto a lui”, diceva -, proprio col suo film più importante, Intolerance (1916), si autocondannò al declino, dato il colossale tonfo economico. I soldi spesi, due milioni di dollari, non rientrarono mai e per molti anni si parlò di uno strano film d’avanguardia, che montava, secondo il principio dell’alternanza delle scene, quattro storie diverse: la Caduta di Babilonia, la Passione di Cristo, la Notte di San Bartolomeo, La madre e la legge (il versante contemporaneo della storia). Intolerance non fu tollerato dal cinema americano. I produttori non vollero sentir più parlare di esperimenti. Imposero il divismo come sistema.
Indice
Il divismo vive della cancellazione del linguaggio cinematografico. L’attore-divo dà l’impronta al film, imponendo la propria figura e il proprio stile di vita (gli amori, il modo di vestire, ecc.) e proiettandoli sullo schermo come modelli di comportamento, prima e al di là della storia raccontata. Non si va a vedere Il segno di Zorro (1920), bensì Fairbanks, prestante e ottimista; non si va a vedere Madame Sans-Gêne (1925), ma Gloria Swanson, affascinante, colta, indifferente. E cosa sarebbe stato Via col vento (1939) senza Clark Gable, rude amatore?
Hollywood nasce nel 1908. La California sembrò luogo ideale per girare il “western” (il primo fu La legge della montagna). Quel villaggio nelle vicinanze di Los Angeles divenne il paradiso delle celebrità. Nel ’20 aveva 25 mila abitanti. C’è da chiedersi quale direzione avrebbe preso il cinema se non si fosse trovato nella tenaglia della distribuzione e del divismo.
In Francia, in Germania, in Russia, in Inghilterra, in Danimarca, in Svezia, in Italia, parallelamente allo sviluppo “fieristico” delle proiezioni, i cineasti della prima epoca cercarono contatti nobilitanti con la cultura ufficiale. E pur tra mille difficoltà (il cinematografo era considerato dal mondo del teatro e della letteratura poco più che una volgare curiosità), riuscirono ad insinuare l’idea che forse stesse nascendo una nuova arte. E comunque molto più frequenti erano sia l’ispirazione a testi dalle sicure credenziali, sia il riferimento ai ceti medi del pubblico. Parlano da soli i titoli: Cenerentola, Ventimila leghe sotto i mari (Méliès), L’assassinio del duca di Guisa, Il ritorno d’Ulisse (prodotti dalla società “Le Film d’Art”, nata nel 1908, per iniziativa dei fratelli Lafitte e con l’adesione della Comédie Française), Fantômas (poliziesco che piacque agli spettatori più raffinati, per le tendenze surrealiste del regista, Louis Feuillade), I miserabili (da Victor Hugo), Il pozzo e il pendolo (da Poe), La Passione di Gesù (di Luigi Topi, 1897, inaugurò la prima sala a Roma), Il conte Ugolino (Dante!), Cabiria (di Giovanni Pastrone, 1914, su soggetto e didascalie scritte da Gabriele D’Annunzio per 50 mila lire), Tosca (con Francesca Bertini), Anna Karenina (da Tolstoj), Manon Lescaut, Amleto (del danese Viggo Larse, ma a Shakespeare si attinse un po’ ovunque, dalla Francia all’Inghilterra all’America), Gli occhi del campanaro (film svedese da una novella di Andersen), Guerra e pace (realizzato prima della rivoluzione d’ottobre col grande attore di teatro Ivan Moajukin), Giulio Cesare, Machbeth, Davide Copperfield, Oliver Twist.
E gli stessi fondatori del cinema americano, Griffith, Thomas H. Ince e Cecil B. De Mille, si erano preoccupati molto più della qualità dei loro lavori che non della resa commerciale. Si pensi che il grande Ejzenstein, il quale aveva avuto l’incarico di esprimere un’arte cinematografica senza preoccupazioni di cassetta, disse che “il meglio del cinema sovietico” nasceva dal film di Griffith, Intolerance. E Griffith, insieme con Chaplin e Mary Pickford (la diva del Piccolo Lord e di Dorothy Vernon), fu chiamato da Fairbanks a far parte della United Artists, società con la quale si intendeva spezzare la perversa catena distribuzione-noleggio, che rendeva possibile e anzi praticamente quasi inevitabile l’accoppiamento di grandi film con pellicole mediocri.
Ince, da parte sua, portò l’arte nel western (genere che fino allora aveva colpito soprattutto per la novità delle riprese in esterni, per i magnifici spettacoli naturali contrapposti al chiuso dei teatri di posa), curando particolarmente il montaggio e gli aspetti drammatici (Civiltà, L’ariano, 1915). E De Mille, prima di passare alla grandiosità dei Dieci Comandamenti (1923), aveva sbalordito per l’intensità della Frode (1915), racconto drammatico reso con magistrali chiaroscuri.
Ma il divismo s’impone e gli intenti espressivi restano repressi all’interno dei processi ripetitivi dello star-system, la “fabbrica” che privilegia i caratteri extrafilmici del “sogno”. Certo è cinema anche quello imperniato sulla presenza dei divi, se non altro (e non è poco) perché la sala è buia e lo schermo è grande. Tuttavia, di interi decenni non resta molto altro, nell’immaginario collettivo, se non le figure di Rodolfo Valentino (I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1921), Gloria Swanson (Fragilità, sei femmina, 1923), Greta Garbo (La tentatrice, 1926), Gary Cooper (Mezzogiorno di fuoco, 1952), Marilyn Monroe (La magnifica preda, 1954).
Il cinema, in questo senso, è una lista di nomi: breve se si punta molto in alto, lunga se si includono le “stelle” meno luminose. Alcuni sono anche grandi attori, ma è una distinzione secondaria. Oltre ai già citati, ricordiamo: Marlene Dietrich (L’angelo azzurro, 1930), Jean Harlow (La donna di platino, 1931), John Barrymore (Grand Hotel, 1932), Claudette Colbert (Cleopatra, 1934), William Powell e Mirna Loy (L’uomo ombra, 1934), Fred Astaire (Seguendo la flotta, 1936), Deanna Durbin (Tre ragazze in gamba, 1936), Carole Lombard (La moglie bugiarda, 1937), Jean Gabin (Il porto delle nebbie, 1937), Bette Davis (La figlia del vento, 1938), John Wayne (Ombre rosse, 1939), Henry Fonda (Furore, 1940), Cary Grant (Sospetto, 1941), Humphrey Bogart (Casablanca, 1942), Spencer Tracy e Katherine Hepburn (Prigioniera di un segreto, 1942), Ingrid Bergman (Per chi suona la campana, 1943), Fredric March (I più belli anni della nostra vita, 1946), Rita Hayworth (La signora di Shangai, 1948), Elizabeth Taylor e Montgomery Clift (Un posto al sole, 1951), Frank Sinatra Da qui all’eternità, 1953), Gregory Peck (Vacanze romane, 1953), Richard Burton (La tunica, 1953), James Stewart (La finestra sul cortile, 1954), Marlon Brando (Fronte del porto, 1954), James Dean (Gioventù bruciata, 1955), Brigitte Bardot (Piace a troppi, 1956).
Nell’elenco, a parte Valentino, non figurano italiani. Il nostro cinema ha sempre stentato ad assumere la dimensione internazionale, indispensabile alla vita delle star. Alcune eccezioni possono confermare la regola: Francesca Bertini (Ivonne, 1915), Sophia Loren (Madame Sans-Gêne, 1961), Gina Lollobrigida (Salomone e la regina di Saba, 1962).
Non tutto il cinema è divismo, certo. Ma difficilmente, negli anni d’oro della produzione americana (la più forte del mondo), prima dell’affermarsi definitivo della televisione, si trovano film, o generi di film, che non siano legittimati dal grande successo commerciale, successo cui la presenza dei divi dà un contributo essenziale. La “star” è il marchio di fabbrica che contraddistingue le maggiori case di produzione.
Furono i produttori, gli italiani della “Caesar”, ad inventare il termine “diva”, negli anni Dieci, per Francesca Bertini (La signora delle camelie, Fedora). E l’immagine della Swanson è inseparabile dalla Paramount, mentre il nome della Twentieth Century Fox è indissociabile dal mito di Marilyn Monroe (Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde, Come sposare un milionario, Quando la moglie è in vacanza, Fermata d’autobus).
Tuttavia, il divismo cambia col mutare dei tempi. Non a caso il nostro elenco, a parte l’inevitabile incompletezza, si ferma alla metà degli anni ’50. La Lollobrigida e la Loren, nei primi ’60, non sono che lo strascico un po’ tardivo di una ritualità ormai consumata. E la stessa Dolce vita di Via Veneto, da cui il film di Federico Fellini, che fece epoca, è il trasferimento un po’ pittoresco di una mitologia che a Hollywood non regge più. Già da alcuni anni, infatti, la Mecca del cinema ha cominciato a trasferirsi in Europa, dove i costi sono minori e dove ognuno spera di trovare una seconda giovinezza. Cinecittà pullula di stelle americane: Kirk Douglas per l’Ulisse di Mario Camerini (1954), Audrey Hepburn e Henry Fonda per Guerra e pace di King Vidor e Mario Soldati (1956), Errol Flynn per il suo Guglielmo Tell, Montgomery Clift per Stazione Termini di De Sica (1953); e c’erano Bogart, Ava Gardner, Shelley Winters, Mel Ferrer, la Swanson per Mio figlio Nerone (con Alberto Sordi e la Bardot alle prime esperienze). E ancora nel ’63, ultimi fuochi, c’erano Liz Taylor e Burton per la Cleopatra di Joseph Mankiewicz.
Indietro però non si torna. Con gli anni ’50, il cinema entra nella sua vera crisi, determinata dal boom della televisione. Nel 1055, i televisori accesi, negli Stati Uniti, sono 47 milioni. Rispetto al decennio precedente, la produzione di film è dimezzata (200 contro i 400 degli anni a cavallo tra i ’40 e i ’50); e le sale cinematografiche, in tutti gli Usa, sono neanche il doppio che in Italia, dove se ne contano ancora ottomila.
Si tenta di parare il colpo ingrandendo lo schermo e moltiplicando le tracce sonore, col Cinemascope (il primo film fu La tunica). Ma il destino del cinema era piuttosto inverso: di essere influenzato dalla tv, un po’ perché la nuova professionalità televisiva (sceneggiatori, registi) cominciò a debordare, per abbondanza, negli studi cinematografici; e un po’ perché il piccolo schermo sembrò il mezzo ideale per moltiplicare all’infinito la fruizione delle storie a episodi, esaltando al massimo quella che era stata già una tendenza dei primi anni del muto. Prendendo come matrice Fantômas di Feuillade, si può dire che il primo vero “serial” arrivò a Parigi dall’America nel 1914. S’intitolava I misteri di New York e dette alla bionda Pearl White un’incredibile popolarità.
Negli anni ’50, gli spettatori del cinema cominciano ad apprezzare certi caratteri nei soggetti, che sono tipici degli “originali” televisivi. Personaggi e storie vengono trasferiti dal video sul grande schermo con sicuro successo. Da questo punto di vista, la tendenza, dal ’55 in poi, non s’arresta più. Il primo esempio, riportato anche nei manuali, è dell’originale Marty, tradotto per il cinema con l’interpretazione di Betsy Blair (nel ’56 sarà interprete di Calle Mayor, dello spagnolo Juan Antonio Bardem) ed Ernest Borgnine. Nel 1958, il primo esempio di buon regista cinematografico che si afferma provenendo dalla tv, Robert Aldrich (Il grande coltello).
Oggi, non solo non si contano i cineasti che si sono formati in tv, ma sono in aumento quelli che vengono dalla pubblicità. Non c’è più bisogno di fare l’esempio classico di Claude Lelouch (Un uomo, una donna, 1966). Si può arrivare fino a Adrian Lyne, il regista di Flashdance. E John Badham, prima di fare La febbre del sabato sera, Wargames e Tuono blu, ha girato un’infinità di spot pubblicitari (piccoli film di pochi secondi, dove il racconto è abbreviato con un montaggio molto rapido e reso attraente da trovate sceniche e visive studiate al millesimo). Dai “caroselli” vengono pure Ridley Scott (I duellanti, Blade Runner) e Richard Lester, regista televisivo che – scrisse con tutta la sua autorevolezza Georges Sadoul – “ha portato nel cinema una libertà inventiva, un humor e una vivacità insoliti” (Help!, Non tutti ce l’hanno, Petulia, Superman III). Lester è uno dei principali esponenti del nuovo cinema inglese degli anni Sessanta (Tony Richardson, Lindsay Anderson), un cinema “arrabbiato”, che apre lo schermo alla realtà quotidiana più scomoda e inquietante, immettendo nella corrente documentaria della tradizione un forte umorismo.
Negli stessi anni ’60, analoghi movimenti si verificano in America e in Europa, con il nuovo cinema di New York (Frank Perry: David e Lisa; John Cassavetes: Ombre; Sidney Meyers: Occhio selvaggio; Lionel Rogosin: Africa torna), che si contrappone polemicamente alla vecchia Hollywood, cercando forme indipendenti e soggetti provocatori; e con la Nouvelle Vague francese, scaturita dal gruppo dei critici dei “Cahiers du cinéma” (Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol) e da Alain Resnais (Hiroshima mon amour, L’anno scorso a Mariembad, Muriel).
Il fatto che le nuove generazioni di cineasti siano collegate obiettivamente alla definitiva affermazione del mezzo televisivo e siano accomunate da un sostanziale intento di “verità” (snellimento della lavorazione, macchina da presa usata come “occhio”, spregiudicatezza nei procedimenti stilistici) non è senza significato. La tv, da una parte, sembra chiudere il mondo espressivo, esasperando l’uso del serial. Ma dall’altra apre alla quotidianità, decostruisce le “grandi storie” del cinema divistico in tanti piccoli episodi, più vicini ai comportamenti “normali” – o se si vuole, più “normalizzabili”, rispetto al comportamento usuale. E nello stesso tempo, con la ripetitività della fruizione, suggerisce quasi la riflessione sul linguaggio, offre moltiplicati a migliaia gli esempi dei meccanismi dell’arte (nel senso di artificiale, di non-naturale, insomma di cultura), dell’espressione fotodinamica (cinema).
Il momento di maggior valore simbolico, oltre che di maggior rilevanza pratica, per il discorso sulla crisi del cinema, è l’atto di vendita da parte delle più grandi case di produzione hollywoodiane degli interi magazzini di film alle reti televisive. La Metro, la Fox, la Paramount, la Warner si svuotano e il piccolo schermo viene inondato di pellicole, un fiume di film di valore medio, un repertorio quasi senza fondo di quei “generi” che avevano costituito per decenni la valida base della produzione americana. Ora il pubblico televisivo, nel vederli e rivederli, entra in un nuovo circuito comunicativo: realizza che un film si può vedere (e rivedere) anche se “vecchio”; ed ha il modo di farsi, nella mente, un “cineforum” privato – e nello stesso tempo collettivo, come privato e collettivo è l’immaginario telespettatore, ancor più dello spettatore cinematografico, per via dell'”immediatezza” e della quotidianità della fruizione), di verificare, di paragonare, accostare, dissociare tra loro personaggi e figure, procedimenti stilistici e artifici tecnici.
Siamo nel ’61 ed è appunto il momento della fioritura del “nuovo cinema” nelle varie cinematografie. Pochi anni ancora e, già a metà dei ’60, il vecchio divismo si trasforma, assume modalità meno rigide. Le case di produzione non “fabbricano” più le loro star e i contratti con gli attori, anche di forte richiamo, si fanno in funzione della realizzazione di un film. E soprattutto, gli attori si avviano a modificare il loro stesso rapporto col cinema. L’esito ultimo e più produttivo si avrà negli anni Settanta, quando Hollywood “risorge”, grazie alla nuova generazione di divi, Dustin Hoffman, Robert De Niro, Jack Nicholson, Elliot Gould, Maryl Streep, Jill Claybourgh, Robert Redford, Al Pacino, Gene Hackman.
In che cosa le nuove star sono diverse da quelle del passato? Intanto, hanno un maggiore controllo sulla macchina produttiva, leggono il copione e decidono se fare o no il film. Ciò ha maggior valore se si considera che la loro “immagine” i nuovi attori la costruiscono esclusivamente col film: non portano sullo schermo una figura prefabbricata dallo star-system, ma utilizzano il film per alimentare il discorso del cinema. E per “schermo” deve intendersi qui il luogo dove si concentra e passa tutta l’esperienza cinematografica.
Se solo pensiamo a due film con Nicholson, Missouri, di Arthur Penn (1975), e Chinatown, di Roman Polanski (1974), è chiarissimo come l’attore faccia i conti, per la sua interpretazione, con il cinema preesistente; e lo faccia sapere allo spettatore. Nel primo caso si tratta del genere western; nel secondo, del giallo. Missouri non è che un confronto di due attori (Nicholson e Marlon Brando), i quali entrano nei loro personaggi con la perfetta coscienza di rivivere figure già viste cento volte. Da cui il sorriso e il ghigno ironico del ladro di cavalli. Come dire: questo personaggio lo avete già visto al cinema, lo conoscete a memoria, ma guardate ora come ve lo faccio io! Stessa cosa in Chinatown. C’è Bogart di mezzo, che non si può cancellare. E Nicholson cerca di essere il meno “naturale” possibile, perché non si può fare l’investigatore privato come se fosse la prima volta. Ormai, sono ruoli “tra virgolette”.
Film d’autore e morte del cinema
Se la consapevolezza del linguaggio deriva agli attori della nuova Hollywood dalla Nouvelle Vague e dalla televisione, tali indicazioni valgono anche per il pubblico, cinematografico e televisivo. E’ vero che molti parlano ormai apertamente di “morte del cinema”. Si moltiplicano i festival, ma gli spettatori sono in calo. Nell’84, il 16,7% in meno, ma già nel ’77 il 57% degli italiani (indagine Doxa) dichiarava di non andare mai al cinema. E’ però anche vero che il pubblico televisivo non è in diminuzione. E buona parte degli spettatori vede film. Allora, la crisi è del circuito commerciale.
Il problema è nel modo in cui la nuova produzione-distribuzione (tv), in funzione della quale il cinema sembra destinato a muoversi per il futuro, terrà conto delle vecchie idee che nel cinema si continuano ad avere quando si parla della sua “morte” (si parlò di morte del cinema anche al momento del passaggio dal muto al sonoro). Oggi, ciò che è in pericolo non è il film in quanto immagini-sonore-in-movimento, bensì il film d’autore.
Dire che cosa sia il film d’autore è quantomeno problematico. Per esempio, il notevole successo sul grande schermo ottenuto, regolarmente ad ogni ri-uscita, da vecchi film di Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile, La donna che visse due volte, La congiura degli innocenti, ecc.) sembrerebbe dimostrare una certa saggezza del pubblico, che saprebbe, nonostante tutto, ancora apprezzare il cinema d’autore. Ma prima della Nouvelle Vague, quando il Truffaut critico, paragonando Hitchcock a Robert Bresson, scrisse che presentava “la nobiltà di non giocare la carta della nobiltà” (1957, a proposito de Il ladro), l’autore di Notorius e del Delitto perfetto era considerato dalla critica nient’altro che un ottimo mestierante, il “mago del brivido”.
Per almeno quattro decenni (il primo critico di cinema fu il francese Louis Delluc, che aveva cominciato a scrivere di teatro non ancora ventenne, nel 1910, e già nel ’17 rimproverava a Feuillade di fare film come Judex solo per il successo) critici e teorici si sono sforzati di legittimare il cinema come Settima Arte, cercando di definirne la specificità. E si è principalmente mutuata dalla letteratura l’idea di una storia dell’arte cinematografica come serie di grandi registi, di cui fare sostanzialmente una lista, con inclusioni ed esclusioni legate alle diverse impostazioni culturali e ideologiche.
Ancora nel ’72, Luigi Chiarini, direttore della Mostra di Venezia dal 1963 al ’67, faceva nel suo libro “Cinema e film” (Bulzoni ed.) l’elenco degli “autori”. Non vi figuravano né Truffaut né Hitchcock, né Ford né Hawks, né Resnais. In compenso, vi era riportata una “confessione” di Godard: “Noi della Nouvelle vague abbiamo visto molti film alla moviola”. Il che coglie l’essenza stessa del cinema moderno: il fare film a partire da una cultura cinematografica. Che cos’è infatti la moviola? E’ lo strumento che permette di verificare il film, inquadrature per inquadratura e fotogramma per fotogramma (l’inquadratura è la serie di fotogrammi che registrano la continuità di un punto di vista della macchina da presa, fino a che non subentri un altro punto di vista, per distanza dall’obiettivo e per angolazione rispetto al soggetto ripreso). Basti pensare all’importanza che può avere la durata di un’inquadratura nel determinare il significato e nel dare il senso a tutta la sequenza (sequenza: l’insieme delle inquadrature di cui l’inquadratura considerata fa parte) – famosa la “lentezza” di Michelangelo Antonioni nel registrare gli oggetti e i personaggi, ponendoli sullo stesso piano ontologico. E’ molto più da tale procedimento stilistico, propriamente cinematografico, che deriva, per il cinema di Antonioni (La notte, L’eclisse, Deserto rosso), la connotazione di poetica dell’alienazione o dell’incomunicabilità, piuttosto che dai riferimenti letterari che i suoi film possono suggerire, a livello di sceneggiatura. E per andare nel generale: il montaggio non è di per sé concetto cinematografico. Qualsiasi racconto scritto, nella suddivisione in capitoli e in frasi, è “montato”; si entra nel cinema quando si considera la scansione effettiva dei pezzi, nella loro concreta presenza sullo schermo, ben diversa per lo spettatore da quel che sia per il lettore il rapporto col periodo scritto e con la memoria di esso. In questo senso, il montaggio alternato, tipico del western (arrivano i nostri!), non è traducibile in letteratura.
Il discorso, qui appena accennato, del rapporto tra inquadratura e montaggio, potrà essere approfondito seguendo le indicazioni bibliografiche alla fine del saggio, con particolare riguardo alle opere sulle teorie e sul linguaggio del cinema. E’ chiaro comunque che, per essere un film una serie di inquadrature, occorrerà che alla realizzazione di ciascuna sequenza siano preposte delle operazioni, le quali obbediscano a loro volta a princìpi organizzativi e produttivi del senso.
Possiamo quindi definire il montaggio come il criterio di accostamento delle diverse inquadrature tra loro, in funzione sia del particolare effetto estetico sia della complessiva articolazione del contenuto del film. L’importanza data da un Balazs al “primo piano” non avrebbe senso se non in quanto tale inquadratura venga inserita, montata, in successione con altre, campi medi, lunghi, figure intere, piani “americani”, ecc. Che poi il montaggio venga ideato al momento della stesura scritta (sceneggiatura o, ancor prima, soggetto, o trattamento del soggetto in vista della sceneggiatura), oppure durante le riprese, o addirittura quando si passi dalle riprese alla lavorazione in moviola, ciò dipende dalla concezione che il singolo regista ha del cinema.
Negli anni Venti, epoca in cui le teorie si sviluppano e si consolidano, il cinema sovietico fornisce due grandi esempi di cinema del montaggio, Pudovkin ed Ejzenstein, ossia: montaggio rispettoso di una sceneggiatura ben congegnata (a priori) e montaggio che dà massima importanza all’accostamento delle inquadrature, dei valori espressivi, valori controllabili veramente solo a riprese effettuate (a posteriori). Non va comunque dimenticato il decisivo apporto dell’americano Griffith, di cui si è già parlato a proposito di Intolerance (1916). Il concetto di alternanza delle sequenze è la legge fondamentale del film di azione.
Ma tutta la storia del cinema può essere vista in funzione del montaggio. Per esempio, l’uso del cosiddetto montaggio “interno” (la sequenza si sviluppa con movimenti della macchina da presa, panoramiche e carrellate, a seguire l’azione senza stacchi) si accentua nelle poetiche degli anni ’60 (la Nouvelle Vague, il nostro Antonioni, ecc.), quasi a distinguere il nuovo cinema da quello classico americano, a stacchi brevi.
Se si segue tale filo, ci si renderà conto delle incomprensioni che il cinema dovette subire, agli inizi, da parte dei letterati e degli uomini di cultura, che considerarono il film una forma indegna, perché meccanica, di trasposizione dei sacri testi. i Verga e i Papini, per restare in Italia, non vollero nemmeno dare un giudizio; e D’Annunzio scrive le didascalie di Cabiria di Pastrone, ma si affretta a dichiarare con disprezzo che i soldi che gliene derivano serviranno per dar da mangiare ai suoi levrieri. E ancora nell’84, il direttore della Mostra di Venezia, Gian Luigi Rondi, chiama in giuria, evidentemente per affermare la validità del cinema come arte, poeti, musicisti e pittori, come Alberti, Evtusenko, Balthus, Petrassi.
Il giudizio idealistico sta alla radice delle riserve sul cinema. Giovanni Gentile nel ’35: “Il problema [dell’artisticità del cinematografo] è apparso sempre più oscuro per il prevalere e il sempre maggiore acuirsi dell’interesse degli studiosi del cinema sulla sua tecnica” (Prefazione a “Cinematografo”, di Luigi Chiarini). E Benedetto Croce: “Un film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto e non c’è altro da dire” (Lettera a L. Chiarini, in “Bianco e Nero”, dic. 1948). Rifiutare la tecnica equivale a valutare un film mettendone tra parentesi il linguaggio. E non c’è altro da dire. Restano immotivate, al fondo, le “liste” dei “grandi” e pure le scansioni dei più importanti periodi storici in “ismi” culturali.
Qui, come per il divismo, ricordiamo in un rapido elenco alcuni capolavori della storia del cinema: Il gabinetto del dottor Caligari, di Robert Wiene, 1920, Il dottor Mabuse, di Fritz Lang e Nosferatu, di Friedrich Wilhelm Murnau, 1922, per l’espressionismo tedesco; La corazzata Potëmkin, di Sergej Ejzenstein, 1925, La madre, di Vsevolod Pudovkin, 1926 e il Cineocchio, di Dziga Vertov, 1924, per il cinema sovietico del periodo rivoluzionario legato alle avanguardie e al formalismo dei linguisti (Eichenbaum, Tynjanov, Sklovskij); Il porto delle nebbie, di Marcel Carné, 1938, A me la libertà, di René Clair, 1931, Zero in condotta, di Jean Vigo, 1933, per il “Realismo poetico” francese; Roma città aperta, di Roberto Rossellini, 1945, Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica, e La terra trema, di Luchino Visconti, 1948, per il Neorealismo italiano.
E al di là degli “ismi”, come rinunciare al gioco dei dieci più grandi registi da “salvare”? E’ una buona occasione per passare in rassegna le maggiori cinematografie mondiali.
STATI UNITI: David Wark Griffith (Nascita di una nazione, 1915, Intolerance, 1916, Giglio infranto, 1919), Charles Chaplin (L’evaso, 1917, Vita da cani, 1918, Il circo, 1928, Luci nella città, 1931, Tempi moderni, 1936, Monsieur Verdoux, 1947), Robert Flaherty (Nanouk, 1922, L’uomo di Aran, 1934), Howard Hawks (Scarface, 1932, Il grande sonno, 1946, Il fiume rosso, 1948, Un dollaro d’onore, 1959), George Cukor (Piccole donne, 1933, Nata ieri, 1950, E’ nata una stella, 1954), John Ford (Il traditore, 1935, Ombre rosse, 1939, Furore, 1940, Sfida infernale, 1946, Il massacro di Fort Apache, 1948, Un uomo tranquillo, 1952, Sentieri selvaggi, 1956, Cavalcarono insieme, 1961), William Wyler (Figlia del vento, 1938, Piccole volpi, 1941, I migliori anni della nostra vita, 1946), Orson Welles (Quarto potere, 1941, La signora di Shangai, 1948, Il processo, 1962), Alfred Hitchcock (L’ombra del dubbio, 1942, Notorious, 1946, La finestra sul cortile, 1954, La donna che visse due volte, 1958, Intrigo internazionale, 1959, Psycho, 1961, Gli uccelli, 1962), Joseph Losey (Il servo, 1963, L’incidente, 1967), Billy Wilder (La fiamma del peccato, 1944, Viale del tramonto, 1950, L’appartamento, 1960), Stanley Kubrick (Rapina a mano armata, 1956, Orizzonti di gloria, 1957, Il dottor Stranamore, 1964, 2001: Odissea nello spazio, 1968) Jerry Lewis (Le folli notti del dottor Jerryll, 1963).
FRANCIA: Louis Lumière (L’arrivo del treno, L’uscita dalle officine, L’annaffiatore annaffiato, 1895), George Méliès (Viaggio nella luna, 1902, Viaggio attraverso l’impossibile, 1904), René Clair (Entr’acte, 1924, Un cappello di paglia di Firenze, 1927, Sotto i tetti di Parigi, 1930, A me la libertà, 1931, Il silenzio è d’oro, 1947), Jean Renoir (Toni, 1934, La grande illusione, 1937, Il testamento del mostro, 1959), Marcel Carné (Il porto delle nebbie, 1938, Alba tragica, 1939, Amanti perduti, 1943), Robert Bresson (Diario di un curato di campagna, 1951, Un condannato a morte è fuggito, 1956, Processo di Giovanna D’Arco, 1961), Jacques Tati (Giorno di festa, 1948, Le vacanze del signor Hulot, 1953, Mio zio, 1958), François Truffaut (I 400 colpi, 1959, Jules et Jim, 1961, Baci rubati, 1968, Il ragazzo selvaggio, 1969), Eric Rohmer (Il segno del leone, 1959, La collezionista, 1967, La mia notte con Maud, 1969).
GERMANIA: Robert Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari, 1929), Fritz Lang (Destino, 19121, Il Dottor Mabuse, 1922, Metropolis, 1926, M, 1931), Friedrich Murnau (Nosferatu il vampiro, 1922, L’ultima risata, 1924, Aurora, 1927, Tabu, 1931), Georg Wilhelm Pabst (Westfront, 1930, La tragedia della miniera, 1931).
ITALIA: Alessandro Blasetti (1860, 1934, Quattro passi fra le nuvole, 1942, Peccato che sia una canaglia, 1955), Mario Camerini (Gli uomini, che mascalzoni!, 1932, Il signor Max, 1937), Vittorio De Sica (Sciuscià, 1946, Ladri di biciclette, 1948, Umberto D, 1952), Roberto Rossellini ( Roma, città aperta, 1945, Paisà, 1946, Viaggio in Italia, 1954), Luchino Visconti (La terra trema, 1948, Senso, 1954, Il gattopardo, 1963), Giuseppe De Santis (Caccia tragica, 1947, Riso amaro, 1948), Michelangelo Antonioni (Le amiche, 1955, L’avventura, 1960, Deserto rosso, 1964), Federico Fellini (I vitelloni, 1953, La dolce vita, 1959, Otto e mezzo, 1962), Luigi Comencini (Pane, amore e fantasia, 1953), Mario Monicelli (I soliti ignoti, 1958, La grande guerra, 1960), Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, 1961, Le mani sulla città, 1963), Dino Risi (Il sorpasso, 1962), Pier Paolo Pasolini (Accattone, 1962, Il Vangelo secondo Matteo, 1964), Gillo Pontecorvo (La battaglia di Algeri, 1966).
UNIONE SOVIETICA: Dziga Vertov (Cine-Occhio, 1924, L’uomo con la macchina da presa, 1929, Tre canti su Lenin, 1934), Sergej Ejzenstein (Sciopero, 1924, La corazzata Potëmkin, 1925, Ottobre, 1927, Aleksander Nevakij, 1938, Ivan Il terribile, 1944, La congiura dei Boiardi, 1946), Vsevolod Pudovkin (La madre, 1925, Tempeste sull’Asia, 1929), Aleksander Dovzenko (Arsenale, 1930, La terra, 1932, Il poema del mare, 1955), Andrej Tarkovskij (L’infanzia di Ivan, 1962, Andrej Rubliov, 1969).
SVEZIA: Victor Siöström (I proscritti, 1917, Il carretto fantasma, 1920, La lettera rossa, 1926, Il vento, 1928), Mauritz Stiller (Il tesoro di Arne, 1919, Verso la felicità, 1920, Il vecchio castello, 1922), Ingmar Bergman (Il Settimo Sigillo, 1956, Il posto delle fragole, 1957, Il volto, 1958, Come in uno specchio, 1961, Il silenzio, 1963, Persona, 1966).
DANIMARCA: Benjamin Christensen (La stregoneria attraverso i secoli, 1922), Carl Theodor Dreyer (L’angelo del focolare, 1925, La passione di Giovanna D’Arco, 1928, Il vampiro, 1932, Dies Irae, 1943, Ordet, 1955, Gertrud, 1964).
OLANDA: Joris Ivens (Zuiderzee, 1930, Nuova terra, 1934, Terra di Spagna, 1937, Il canto dei fiumi, 1954, La Senna ha incontrato Parigi, 1957, L’Italia non è un paese povero, 1959, Il cielo, la terra, 1965).
INGHILTERRA: Alexander Korda (Le sei mogli di Enrico VIII, 1932), John Grierson (Motopescherecci, 1929), Anthony Asquith (Pigmalione, 1938), Laurence Olivier (Enrico V, 1945, Amleto, 1948, Riccardo III, 1956), David Lean (Breve incontro, 1946, Il ponte sul fiume Kwai, 1957, Lawrence d’Arabia, 1962), Carol Reed (Il fuggiasco, 1947, Idolo infranto, 1948, Il terzo uomo, 1949, Il nostro agente all’Avana, 1959), Michael Powell (Scarpette rosse, 1947, L’occhio che uccide, 1959), Tony Richardson (Sapore di miele, Gioventù amore e rabbia, 1962, Tom Jones, 1963, Il caro estinto, 1965), Karel Reisz (Sabato sera, domenica mattina, 1961, Morgan matto da legare, 1966), Lindsay Anderson (Io sono un campione, 1963), John Schlesinger (Una maniera di amare, 1962, Billy il bugiardo, 1963, Darling, 1965).
POLONIA: Alexander Ford (La legione della strada, 1932, Fiamme su Varsavia, 1949, La giovinezza di Chopin, 1952, I cinque di Barska, 1955, I cavalieri teutonici, 1962), Andrzej Waida (I dannati di Varsavia, 1957, Ceneri e diamanti, 1958, Lady Macbeth siberiana, 1962, Ceneri, 1965), Roman Polanski (Il coltello nell’acqua, 1962, Repulsione, 1964, Cul-de-sac, 1965), Jerzy Skolimowsky (Segni particolari, nessuno, 1964, Barriera, 1966, Il vergine, 1967).
UNGHERIA: Miklos Jancsò (I disperati di Sandor, 1965, L’armata a cavallo, 1967)
SPAGNA: Luis Garcia Berlanga (Benvenuto Mr Marshall, 1952, Calabuig, 1956, La ballata del boia, 1964), Juan Antonio Bardem (Gli egoisti, 1954, Calle Major, 1956), Louis Buñuel (in Francia: L’âge d’or, 1930; in Messico: I figli della violenza, 1950, Estasi di un delitto, 1955, Nazarin, 1959; in Spagna: Viridiana, 1961).
BRASILE: Glauber Rocha (Il dio nero e il diavolo biondo, 1964).
GIAPPONE: Kenji Mizoguchi (Sinfonia della grande città sulla costa, 1929, Le sorelle Gion, 1936, La donna di Osaka, 1940, Utamaro e le cinque donne, 1946, La vita di O-Haru, donna galante, 1952, I racconti della luna pallida d’agosto, 1953, La strada della vergogna, 1956), Yasujiro Ozu (Il figlio unico, 1936, Tarda primavera, Il racconto di Tokio, 1953), Akira Kurosawa (Rashomon, 1950, I sette samurai, 1954, Il trono si sangue, 1957), Keisuke Kinoshita (Una tragedia giapponese, 1953, La leggenda di Narayama, 1958), Nagisa Oshima (Notte e nebbia nel Giappone, 1960).
Una lista di nomi, poco più che un gioco. E tuttavia, come anche per ogni gioco, ci siamo dovuti dare una regola. Fondamentalmente, non abbiamo oltrepassato il limite degli anni ’60, toccandoli di quel tanto che era necessario per ricordare la fioritura di un “nuovo cinema”. Ma la Nouvelle Vague è ormai un mito anch’essa e, come diceva Godard, “Nessuno pensa, nessuno interpreta”, ossia nessuno sembra dar seguito a quei tentativi di riutilizzazione critica del “cinema di papà”. Tutto il decennio seguente è dunque passato invano? Senza voler far eco agli “apocalittici”, sempre pronti a celebrare la morte del cinema, diremo che gli anni ’70 sono stati anni pesanti (Anni di piombo è il titolo del film della tedesca Margarethe Von Trotta, Leone d’oro a Venezia nel 1981); in una parola, gli anni del “riflusso”.
Giusto del ’73 è American Graffiti, di George Lucas, il quale, dopo aver sfondato con Guerre stellari (1977), passerà a fare il produttore, portando al trionfo il personaggio dell’archeologo Indiana Jones (Harrison Ford), con I predatori dell’arca perduta (1981, regia di Steven Spielberg, 150 miliardi d’incasso in America). Spielberg, da parte sua, arriva ai “Predatori” dopo film di enorme successo, come Lo squalo (1975) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977).
Sempre nel ’73, l’ottica della commemorazione è ribadita dal trionfo di un film “simpatico”, come La stangata, di George Roy Hill, con Robert Redford e Paul Newman; e anche di Come eravamo, di Sidney Pollack, con Barbra Streisand e Robert Redford. Contestualmente viene cancellata l’ipotesi di un cinema a basso costo, aperto alle novità (Easy Rider, 1969, è poco più che un ricordo patetico); e finiscono con l’imporsi quei “giocattoli” miliardari, che ancora a metà degli anni ’80 domineranno la produzione internazionale, come Gremlins, Dune, La storia infinita, film che sfidano i successi delle guerre “stellari”. Diciamo giocattoli anche proprio alla lettera, per via dell’interesse suscitato dai meccanismi animati elettronicamente, uno per tutti il pupazzo di E. T., invenzione e opera dell’italiano Carlo Rambaldi.
Tornando al gioco della lista, non abbiamo voluto “sistemare” il cinema degli ultimi 20 anni, perché la prospettiva ci è parsa tuttora più che incerta. Nella lista degli italiani mancano perciò registi come Valerio Zurlini, Ermanno Olmi, Elio Petri, Marco Ferreri, Bernardo Bertolucci, i fratelli Taviani, Lina Wertmüller, Ettore Scola; e mancano tanto più le generazioni dei Del Monte e dei Moretti. Tanti problemi resterebbero da risolvere. Per esempio, quale sia il destino del “Nuovo cinema tedesco”. A parte il caso di Jean-Marie Straub, personalità di rilievo assoluto (francese di nascita, ma vissuto molto in Germania e anche in Italia), che continua dal ’65 (proiezione di Non riconciliati a Berlino) a turbare le coscienze col suo implacabile approccio critico alla materia cinema (Cronaca di Anna Magdalena Bach, Lezioni di Storia, Mosè e Aronne, Dalla nube alla resistenza, Troppo presto troppo tardi, Rapporti di classe), come considerare i Fassbinder e i Kluge, gli Herzog e i Wenders, gli Schloendorf e i Reitz?
Lasciando stare il valore di ciascuno, forse si può prendere dal cinema tedesco degli anni ‘7o la lezione produttiva, il collegamento con le strutture televisive; potrà essere questa una via per risolvere l’impasse del cinema nei rapporti col piccolo schermo. Una risposta italiana sembra già essere venuta dal successo, ufficializzato dalle giurie di Cannes nel ’77 e nel ’78, di film come Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani, e L’albero degli zoccoli, di Olmi, film prodotti dalla Rai-Tv, come anche il più recente Giulia e Giulia, presentato a Venezia nel 1987. Realizzato da Peter Del Monte con le telecamere ad “alta definizione” (immagine televisiva formata, “definita” da 1125 linee anziché dalle 625 dello standard europeo), il film ha dimostrato i vantaggi di poter utilizzare il metodo televisivo, che permette di controllare immediatamente il risultato delle riprese. Si realizza così una più diretta corrispondenza tra invenzioni creative e possibilità tecniche. E da non trascurare l’altro vantaggio, di una distribuzione del prodotto su scala potenzialmente universale, tramite la diffusione satellitare.
Il futuro del cinema è dunque televisivo? Fenomeni del tipo Rocky-Stallone o Febbre del sabato sera – Travolta, oppure i “giocattoli” miliardari pieni di effetti speciali nascondono una certa adattabilità alla scomposizione in “puntate” per la tv. Per ora, il problema sembra prettamente produttivo/distributivo, ma abbiamo visto quanto le leggi della produzione e della distribuzione possano influire sul linguaggio stesso del cinema. In profondità, resta il nodo filosofico del “diritto” del cinema di proporsi al giudizio in quanto prodotto artistico, ossia nella propria specificità di linguaggio. Paradossalmente, ma non troppo, proprio la contrapposizione aristocratica tra film d’autore e “soap-opera” (opera-sapone, finanziata inizialmente – anni ’50 – dai detersivi in America), siccome ancora infondata metodologicamente, ovvero basata su concetti vaghi e su valutazioni di gusto, impedisce un rapporto sereno tra cinema e tv, mantenendo le due forme sui parametri delle vecchie estetiche idealistiche. Si pensi a produzioni quali Dallas, Dynasty, Flamingo Road, Dancin’ Days, o a telefilm come Colombo, Kojak, Starsky e Hutch: sembra difficile organizzare un discorso, che non sia di mera e improduttiva contrapposizione con i “capolavori” del cinema, senza utilizzare in qualche modo le indicazioni di metodo provenienti dallo sviluppo della ricerca linguistico-semiologica degli anni ’70.
Si farebbe qui un imperdonabile torto ai classici della riflessione teorica, se si tentasse in poche righe la sintesi di lunghi e spinosi dibattiti, protrattisi a partire dal periodo quasi immediatamente successivo alla nascita del cinema, fino almeno alla metà degli anno ’70. Studiosi come Canudo, Delluc, Epstein, Pudovkin, Ejzenstein, Balàzs, Arnheim, Lukás, Cohen-Séat, Bazin, Mitry, Ragghianti, Chiarini, Barbaro, Aristarco, Della Volpe, Metz, Garroni, meritano attenta lettura. Ed è vero che molti equivoci sono derivati dall’eccessiva schematizzazione del problema dello “specifico filmico” (l’inquadratura? il montaggio? la fotografia?); e anche dalla riduzione quasi a sola nomenclatura delle questioni semiotiche venute al pettine con una certa riconsiderazione dello strutturalismo. Non basta sostituire alla terminologia dello “specifico” quella del “segno” per risolvere difficoltà fondamentali. Per esempio, la valutazione estetica.
Restando tuttavia l’istanza della preferenzialità, occorre prendere coscienza della non univocità del sapere (le scienze lo hanno già fatto da un pezzo) e affidarsi al concetto di relatività delle pertinenze. Una certa “bellezza” è giudicabile in rapporto a determinati parametri, l’interesse dei quali è determinato a sua volta da diverse circostanze. Purché circostanze e parametri siano resi espliciti. Insomma, la verità, anche la verità dell’arte cinematografica, non è mai immediata, dato che passa per il linguaggio (diciamo “linguaggio” sottintendendo che un atto comunicativo suppone, in ogni caso, un doppio processo, di selezione da una linea verticale di possibilità e di combinazione su una linea di concretezza orizzontale – è il “duplice carattere” di cui parlava Roman Jakobson nel 1942 e di cui si può leggere nei Saggi di linguistica generale, Feltrinelli ’66 -. Altrimenti, dovremmo passare per valida la condizione inammissibile, almeno a partire da Kant, come ha scritto Emilio Garroni in un intervento sul tema “Strutturalismo e critica del film”; e cioè: “che i fenomeni con cui abbiamo a che fare, di qualsiasi tipo, possano essere contingenti, casuali e asistematici, in assoluto o in tutti i sensi; perché se così fosse, non potremmo avere la più piccola conoscenza, né addirittura una qualsiasi percezione del reale, e ogni impressione sensibile si mostrerebbe slegata, non interpretabile, non riconoscibile” (Bianco e Nero, XXIII, 3/4, 1973). Invece, se accendiamo il televisore, riconosciamo quasi-subito se sia in onda un film o un telefilm. E se non siamo in grado di distinguere, proveremo analoga difficoltà col telegiornale, nel distinguere le diverse forme della sua messa-in-scena.
NOTA BIBLIOGRAFICA Un classico della storia del cinema è G. Sadoul, Storia del cinema mondiale, Milano, Feltrinelli, 1984, a cui si può affiancare G. Rondolino, Storia del cinema, Torino, Utet, 1967. Per il cinema italiano, si vedano C. Lizzani, Il cinema italiano. Dalle origini agli anni Ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1982, e G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni Ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1982. Per ulteriori letture sugli “autori” del cinema, consigliamo la collana di monografie sui registi diretta da F. Di Giammateo per La Nuova Italia, Firenze, riedita a Milano da Editrice Il Castoro.Fra i numerosi lavori di carattere tecnico e teorico, segnaliamo: P. Uccello, Cinema tecnica e linguaggio, Torino, Edizioni Paoline, 1982; G. Aristarco, Storia delle teoriche del film, Torino, Einaudi, 1951; A. Barbera e R. Turigliatto, Leggere il cinema, Milano, Mondadori, 1978; F. Casetti, Teorie del cinema dal dopoguerra a oggi, Roma, Espresso Strumenti, 1978.
Franco Pecori, Dalla Settima Arte al Tv-Film, in Letteratura e conoscenza, G. D’Anna, 1988
30 Gennaio 2017