Cinema, critica, psicoanalisi
Uno sguardo nel buio
Il libro di Enzo Natta

Le voyage dans la lune – Georges Méliès, 1902
Nell’introduzione al suo Uno sguardo nel buio – Cinema, critica, psicoanalisi (Effetà Editrice, 2005, ristampa 2009), Enzo Natta si domanda se sia «opportuno» che la critica cinematografica «si spinga su un terreno non propriamente congeniale ai suoi criteri e ai suoi metodi di analisi». E trova un primo «conforto» in Benedetto Croce: «Se anche si fosse spinto – dice Natta – a fare considerazioni sulla missilistica nucleare avrebbe dato dei punti a chiunque». Per quanto paradossale, l’affermazione racchiude già in sé una tale complessità da giustificare senz’altro la pubblicazione del libro. Fu lo stesso Croce ad affermare, in una lettera a Luigi Chiarini, che «Un film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto e non c’è altro da dire» (Bianco e Nero, dic. 1948), tuttavia l’istanza analitica, cacciata per così dire dalla porta, rientra dalla finestra ogni volta che, di fronte ad un testo, si renda inevitabile l’applicazione del doppio parametro, ineludibile, di pertinenza e circostanza. Nel suo interessante studio Natta cita Immanuel Kant, Agostino d’Ippona, Gabriel Marcel, Jacques Lacan, Christian Metz, Platone, Sainte-Beuve, Wilhelm Jensen, Carl Gustav Jung, Sigmund Freud, Salvador Dalì, Michael Walker, Giorgio Montefoschi, Eschilo, Lucio Apuleio, Antonio D’Orrico, Pietro Citati, Don DeLillo, Cecil B. De Mille e molti altri. Quindi arriva a stabilire che nella critica «l’unica regola sicura è che non ci sono regole». E parzialmente corregge con Umberto Eco e con la sua idea della «doppia codifica», in cui entra nientemeno che il concetto di codice.
Dunque analizzare si può. Ed è per questo che il libro di Natta si articola poi in paragrafi e capitoli sempre più interessanti, che vanno dall’iniziale ricordo della ricerca (inutile, ora lo sappiamo) della «specificità» del linguaggio cinematografico all’elenco dei «diversi tipi di critica» e di «lettura». Un po’ sbrigativa pare la liquidazione dello Strutturalismo, giusta se riferita alla pretesa (Roland Barthes e successivi) di applicare direttamente al cinema i criteri della linguistica, ma non ancora giustificata se ipotizzante un linguaggio estraneo al doppio asse semiotico della selezione/combinazione (Roman Jakobson). Dopo il gustoso capitolo intitolato Varietà e intrecci di percorsi, da Croce a De Sanctis e a Gramsci, dalla psicologia sperimentale alla sociologia, fino ad un contatto tra Hegel e Lacan, «accomunati dalla ricerca della verità nella profondità dell’uomo», quasi preso da scoramento per il «vuoto teorico», Natta trova una soluzione in André Bazin, padre della Nouvelle Vague francese: «Andare al di là dell’immagine per arrivare alla coscienza della realtà stessa». E siamo d’accordo. Nella nostra Breve storia del cinema, inserita nel terzo volume di Letteratura e conoscenza, Storia e antologia della letteratura italiana per le scuole medie superiori, diretta da Riccardo Scrivano (G. D’Anna ed., 1988), dicevamo appunto:
Occorre prendere coscienza della non univocità del sapere (le scienze lo hanno già fatto da un pezzo) e affidarsi al concetto di relatività delle pertinenze. Una certa “bellezza” è giudicabile in rapporto a determinati parametri, l’interesse dei quali è determinato a sua volta da diverse circostanze. Purché circostanze e parametri siano resi espliciti. Insomma, la verità, anche la verità dell’arte cinematografica, non è mai immediata, dato che passa per il linguaggio (diciamo linguaggio sottintendendo che un atto comunicativo suppone, in ogni caso, un doppio processo, di selezione da una linea verticale di possibilità e di combinazione su una linea di concretezza orizzontale – è il “duplice carattere” di cui parlava Roman Jakobson nel 1942 e di cui si può leggere nei Saggi di linguistica generale, Feltrinelli ’66 -. Altrimenti, dovremmo passare per valida la condizione inammissibile, almeno a partire da Kant, come ha scritto Emilio Garroni in un intervento sul tema Strutturalismo e critica del film; e cioè: «che i fenomeni con cui abbiamo a che fare, di qualsiasi tipo, possano essere contingenti, casuali e asistematici, in assoluto o in tutti i sensi; perché se così fosse, non potremmo avere la più piccola conoscenza, né addirittura una qualsiasi percezione del reale, e ogni impressione sensibile si mostrerebbe slegata, non interpretabile, non riconoscibile» (Bianco e Nero, XXIII, 3/4, 1973).
Purtroppo, nota Natta, la critica cinematografica, dopo «il ruolo attivo» esercitato negli anni ’60 e ’70, ha esaurito la sua spinta propositiva. E concretamente, lo spazio diminuisce mentre il gossip avanza. È quel certo ondeggiare «fra estremismi metodologici e un nihilismo di fondo» che l’autore definisce «carenza vitaminica». In cerca di aiuto, Natta lo trova appunto nella psicoanalisi, cita Rudolf Arnheim («Il cinema ha abolito la Storia perché ha abolito il tempo. La realtà oggettiva non esiste più, esiste solo quella soggettiva e l’unico aiuto per interpretarla può venire dalla psicoanalisi») e parte dal principio che il cinema è il «sogno collettivo». Memoria, immaginario, vita fanno parte del «linguaggio universale». Il cinema non ne è certo estraneo e, anzi, si rende utile. Fenomeno diffuso in America è la cineterapia. Un film può aiutare a cambiare i comportamenti. «Misteriose alchimie» che Jung può insegnarci a capire, percezioni subliminali che il cinema può aiutarci a mettere nel «circuito collettivo». A questo punto, Natta si inoltra in esempi psicoanalitici con una stimolante rassegna di analisi di personaggi e situazioni anche cinematografiche, da Big Fish di Tim Burton a Fellini 8 e 1/2 di Federico Fellini, da Agata e la tempesta di Silvio Soldini a Primo amore di Matteo Garrone. E poi Evilenko di David Grieco, La ragazza dall’orecchio di perla di Peter Webber, Io ti salverò di Alfred Hitchcock, David e Lisa di Frank Perry e altri esempi per confermare, seguendo Christian Metz (autore non estraneo allo strutturalismo), l’ «equivalenza fra lo spettatore e il sognatore». «Rinunciando alle certezze della realtà per conferire credibilità all’illusione cinematografica, lo spettatore genera un suo doppio che ripropone la scissione fra il conscio e l’inconscio». Avrebbe dunque avuto ragione Méliès contro i Lumière? Resta pur sempre variabile e quindi presunto, secondo pertinenza e circostanza, il carattere «onirico e visionario» dell’uno e «realistico» dell’altro tipo di cinema. E se la luna di Méliès ci facesse pensare al treno dei Lumière? E se il treno ci facesse pensare alla luna? Il senso dell’immagine non potrà prescindere dal suo essere immagine.

L’arrivée d’un train à La Ciotat – Louis e August Lumière, 1895
Franco Pecori
29 Ottobre 2009