Totò, modestia a parte
Sarei potuto diventare un grande attore…
Sono passati 40 anni da quando Antonio de Curtis se n’è andato (15 aprile 1967). Non sembra ieri, sembra tanto tempo fa. Non perché Totò sia passato, ma certo è difficile trovare oggi qualcuno che su di sé si esprima con la sincerità del principe della risata e che sappia andare con parole semplici all’essenza dell’arte comica. Dà perfino un po’ fastidio, per dirla tutta, l’osanna superovvio di quanti ancora, tantissimi, esaltano Totò per sentito dire, come si fa con la Gioconda di Leonardo. Ma la storia vuole il suo tempo. Per ora, rileggiamo alcune dichiarazioni dell’attore, raccolte da L’avventurosa storia del cinema italiano, due preziosi volumi curati da Franca Faldini e Goffredo Fofi (Feltrinelli, 1979-81).
«La miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattivera del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».
«Oggi si è persa l’arte di far ridere. Oggi si tenta di far divertire la gente con le barzellette, con le battute. Io le barzellette non ho mai saputo dirle. Se voglio raccontarne qualcuna, mi inbroglio. Ne vien fuori una cosa penosa. Io non so raccontare. Sono un comico muto. Io sono sempre andato in scena con canovacci di dieci minuti, che sviluppavo sul momento, fino a farli durare anche tre quarti d’ora. Dicono che ho la faccia triste. Non ce l’ho triste, ce l’ho rotta, perché mi sono rotto il naso. ma con questa faccia triste ho fatto ridere per tanti anni; risate vere e la gente ride anche oggi, modestia a parte. Perché la comicità vera ha sempre un fondo macabro, tragico. Non c’è niente che provochi singulti di ilarità, assalti maltrattenuti di fou rire quanto un funerale, che è lo spettacolo della morte».
«Un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto e ipocrita: questo è Totò. Quando recito ho una mia forma di civetteria, sono perfido e insinuante come una mosca cavallina. Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l’ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace, gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco. In uno sketch di una vecchia rivista, C’era una volta il mondo, la mia spalla, Mario Castellani, finiva per arrabbiarsi sul serio. Qualche sera avevo l’impressione che stesse per picchiarmi. Era la scena del wagon-lit, in cui ero davvero intrattabile. Angariavo in ogni modo il povero Castellani, gli impedivo di dormire, gli gettavo la valigia dalla finestra, gli ripetevo una dopo l’altra le mie solite frasi di disturbo: “Sono un uomo di mondo”, “Ma lei non sa chi sono io”, “Quando c’è la salute”, “Tampoco”, “A prescindere”, “Eziandio”, “Comunque”, “Appunto”, “Dico…”. La stessa cosa è poi capitata con Peppino De Filippo ne La banda degli onesti. Giunsi fino a chiudergli la mano sinistra in una porta. Era furibondo».
«Sono ormai all’età in cui si tirano le somme e non ho fatto nulla. Sarei potuto diventare un grande attore e invece, di cento e più film che ho girato, ve ne sono di degni non più di cinque».
«Non capisco quello che Pasolini mi fa fare o che sta facendo. Vuole che corra tutto il giorno, però, mannaggia, mi piace! Lui intende fare un film comico, con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me».
…a prescindere
11 Aprile 2007