Venezia 1975, Una valanga di film e seminari
Positivo il bilancio della sezione Cinema della Biennale
Per la sezione Cinema della Biennale di quest’anno (chiusura l’11 settembre 1975), una valanga di film e un fitto intrecciarsi di lavori seminariali, di tavole rotonde, di incontri e dibattiti, con tanto problemi di carattere critico-economico-politico. Per i seminari basti pensare alla vastità e complessità di temi come Industra culturale e cinema in Usa negli anni ’10 e ’20 o come I meccanismi dell’emarginazione. Quest’ultimo seminario era legato ai dati del libro bianco sulla “censura di mercato” presentato dal Sindacato Critici Cinematografici. Confermata l’impressione di un lavoro stimolante e aperto.
La retrospettiva del cinema muto americano è stata seguita attentamente soprattutto dai giovani, i quali si sono mangiati con gli occhi film come Carmen di Cecil De Mille (il regista patriarca che cominciò con The squaw man nel ’14 e finì nel ’59 con il rifacimento de I Dieci Comandamenti) e film come Abraham Lincoln e America, firmati da quel Griffith a cui il contemporaneo Ejzenstein dedicò tanta attenzione. Finalmente qualcuno (la Cineteca Griffith di Genova) se ne è occupato anche da noi, approfittando del centenario della nascita. Una riconsiderazione di Griffith risulta oggi molto significativa perché il padre del racconto cinematografico, dal punto di vista dei procedimenti e dal punto di vista del sistema produttivo, raccoglie in sé i termini iniziali appunto della dialettica tra confezione del film di gnere, industraile, e uso analitico di mezzi linguistici come il primo piano, il montaggio parallelo (il famoso “arrivano i nostri”), ecc.
Parlando dei film visti, non tutti dato il ritmo di quattro proiezioni al giorno, da sottolineare intanto la presenza del cinema greco. Per Angelopoulos, segnalato a Cannes e consacrato a Venezia, si è ricordato il Visconti di Ossessione e si è fatto anche il nome di Jancsò. Certo, Angelopoulos non è un regista naïf, ma la sua dimensione è specificamente grega, con un senso della tragedia che nasce da un terreno culturale molto preciso. Non dimenticheremo facilmente quella donna omicida di Anaparastassi, che con il suo sacco in spalla se ne va sulla montagna e siede davanti al fuoco, sola. Partendo da quella sofferenza possiamo capire a fondo le ragioni di una ricerca storica che copre un ampio arco di anni (da Meres tou ’36 – Giorni del ’36 – a O Thiassos – La compagnia di comici che percorre la Grecia dal ’39 al ’52), sul filo di una consapevolezza stilistica da apprezzare in blocco, nei suoi ritmi lenti e cadenzati e nei suoi risvolti ideali.
Altro film greco, quello di Pantelis Voulgaris, To proxenio tis Anna (Il fidanzamento di Anna), un ritratto della media borghesia basato sulla ricostruzione meticolosa di atmosfere e dettagli della vita quotidiana, senza trattare temi specificamente politici. Voulgaris ha saputo essere corrosivo puntanto sull’ironia e sulla finezza descrittiva.
E passiamo agli americani. Con Cassavetes si è andati sul sicuro. Si tratta di un regista dalle caratteristiche ben definite, caposcuola con Mekas, Rogosin e Meyers del New American Cinema Group (1960) e autore di un film, Shadows (Ombre), che nel ’58 rappresentò per gli americani qualcosa di analogo all’esplosione della Nouvelle Vague francese. Il lavoro di John Cassavetes si basa su un anticonformismo di fondo, che implica il rifiuto delle regole hollywoodiane: illuminazione sfarzosa, carrelli, gru, montaggi ad effetto. La macchina da presa si muove con naturalezza, spesso tenuta a mano, e agli attori viene data un’ampia libertà di esprimersi improvvisando. Non per niente Cassavetes è nato come attore. Qui a Venezia, soprattutto con Husbands (Mariti, 1974), ha confermato la forza di un discorso d’avanguardia, non più soltanto legato al superamento della figura tradizionale dell’artista (carattere tipico dell’avanguardia storica, come ha sottolineato Bruno Torri in una delle tante sedute seminariali) ma interessato fino in fondo a una critica della società. Husbands, nonostante il titolo, non può essere scambiato per un film sulla condizione matrimoniale. È piuttosto la prova di un profondo bisogno di comunicativa, espresso, o meglio lasciato esprimere attraverso l’autonomia delle inquadrature che registrano le contradizioni di una realtà (dell’attore e della situazione che egli sta “vivendo”), liberando tutta una serie di significati. Il comico, il tragico, il divertente sono chiavi di lettura di un cumulo ricchissimo di osservazioni, accostamenti, luoghi comuni, isterismi. Un po’ più costruito e anche giocato sulla simpatia del protagonista, Minnie e Moskowitz è un film molto bello sulla diversità rifiutata e sulla difficoltà a conciliare una tendenza al comportamento spontaneo con le norme sociali: un’educazione al matrimonio, tra compromessi e ribellioni.
Meno interessnti, almeno qui a Venezia, proposte come il Mel Brooks delle”vecchiette” (Per favore non toccare le vecchiette), la cui trasparente commercialità non ha certo bisogno di ulteriori lanci pubblicitari. Una certa velleità ideologica ha mostrato Paul Bartel con Death Race 2000, in cui il mito della violenza industriale è però identificato in una sfrenata e troppo allettante corsa automobilistica attraverso l’America del futuro. Gli effetti sovrastano il discorso sul falso entusiasmo e sul terrificante ottimismo di una certa società.
E passiamo a Brian De Palma, gioà autore de Il fantasma del palcoscenico. Alla Biennale ha portato un suo film precedente, Sister (1972), che sotto forma di giallo a tinte forti vorrebbe trattare il delicato problema clinico e psicologico delle sorelle “siamesi”. Tuttavia, tolta una certa apprensione dovuta alla meccanica del montaggio, il tema appare svolto alquanto schematicamente e non sempre alivello di buon gusto.
Chiudiamo sugli americani con un bel film di Bob Rafelson, The King of Marvin Gardens, i cui protagonisti, Jack Nicholson e Bruce Dern, sono due fratelli che si fronteggiano in un mondo di sogni. L’uno “filosofo” e “artista”, l’altro scavezzacollo affarista dilettante che crca la felicità del dollaro in impossibili evasioni commerciali. Sono l’incarnazione ironica di un fallimento più vasto e rappresentano una vacuità più globale, ben tradotta dal regista, nonostante qualche forzatura sul patetico e sul simbolico.
In tutt’altro modo è trattato il rapporto tra fratelli, questa volta in un film italiano, Il fratello, interpretato da Riccardo Cucciolla, Lidia Bednarek e Laura Marchi e diretto da Massimo Mida. Dei due fratelli, Marco e Bruno, ne vediamo uno solo. Una voce fuori campo (quella di Marco) ci informa sull’esistenza dell’altro e man mano ce la rende sensibile con l’aiuto di flash-back. L'”assenza” di Bruno assume il valore di un’ambiguità anche tematica rispetto alla dichiarata difficoltà a comunicare da parte di Marco. Tutto il film è forse in questa ambiguità di fondo, per cui mentre Marco “dichiara” la sua crisi di solitudine, Bruno denuncia un rapporto di soggezione del fratello nei suoi confronti. A livello di sceneggiatura, si nota una certa ansia nel recuperare a un discorso più generale il tema intimo. La fatica è nella struttura stessa del personaggio. In Marco, la vocazione dell’insegnante è tardiva, egli avrebbe in realtà voluto essere regista come aveva sempre fatto con successo il fratello. Una certa mostruosità dei rapporti interpersonali nella grande città, una certa difficoltà nel fare scuola a ragazzi di borgata: tutto questo nel cinema si può rappresentare. Da insegnante, l’incomunicabilità va verificata e superata senza gratifiche spettacolari. In tale impietoso confronto il regista ha voluto andare a fondo e nel finale ha scoperto il gioco del suo film: in un lungo carrello all’indietro la presenza del fratello morto si fa sempre più sentire fino a freddare la sostanza sentimentale della storia in quell’immagine ferma di Marco, non più insegnante, non più regista, ma soltanto fratello, accanto a un corpo coperto da un lenzuolo bianco. Mida ha definito il suo come un film “intimista”. Si tratta piuttosto di un film sui problemi che presenta il fare un film intimista oggi. Un film sincero e disarmato, che svela se stesso specialmente nelle sequenze in flash-back.
Un programma contrario si è imposto Gianni Serra con Fortezze vuote – Umbria: una risposta politica alla follia. La dimensione “privata” del regista è cancellata nel progetto pubblico della produzione, nella quale si sono impegnate l’Unitelefilm, la Regione Umbria e la Provincia di Perugia. Tullio Spinelli, professore di Antropologia culturale a Perugia, ha detto: «Il problema della lotta contro l’istituto manicomiale non passa se non si realizza una rete sul territorio, un rapporto con le popolazioni, con i sindacati, con i consigli di quartiere, di fabbrica». Fortezze vuote (metafora per definire i bambini affetti da autismo o regressione infantile) è un film-inchiesta, un film-dibattito in cui la gente parla liberamente dello scottante problema e dove i “malati” stessi sono chiamati a intervenire in prima persona. La proposta risulterà tuttavia veramente nuova quando si arriverà a dare alla macchina da presa la giusta “distanza” dall’oggetto.
Sulle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro della grande città da parte di una giovane contadina divenuta operaia è impiantato il film di Raffaele Maiello, Non si scrive sui muri a Milano. Attorno alla storia centrale, delicata e però anche gracilina, ironica ma non sempre distaccata, si aggregano molte osservazioni sulle possibilità e impossibilità di trovare una via autentica nel proprio lavoro e nella propria vita sentimentale.
Franco Pecori A Venezia una valanga di film Giorni, 17 settembre 1975
17 Settembre 1975