Biennale-laboratorio, niente mondanità
Niente mondanità e molto lavoro. È l’impressione dopo le primissime giornate alla Mostra di Venezia. Parallelamente alla presentazione dei “nuovi film” italiani e al via della “Personale” del greco Angelopoulos – il primo film è stato Anaparatassi, La ricostruzione, un film tragico nel senso greco della parola, tutto sulla sofferenza della povera gente abbandonata in paesini morenti eppure forte, feroce nelle proprie sventure, un film che sembra tutto girato all’alba per il valore nascente del suo contenuto – si sono aperti i lavori del primo seminario in programma: Sulla crisi del modo di produzione cinematografico e il ruolo delle scuole di cinema; ed è cominciata la seconda parte della importantissima retrospettiva dedicata a D. W. Griffith. Nella conferenza stampa di apertura, Ripa di Meana ha detto che il ritorno al Palazzo del Cinema del Lido, lasciando da parte le vecchie passerelle, è da vedere nella prospettiva di continuità rispetto a quanto di buono e di serio si è già fatto a Venezia per il cinema mondiale. Circa le indicazioni di metodo nella scelte dei film, questi alcuni criteri: registi francesi in collegamento con la società, spazio a film americani emarginati dal nostro circuito (Mel Brooks, Cassavetes, ecc.), registi nuovi come Angelopoulos o Chantal Akerman, registi di profonda tendenza politica ma considerati tabù per la loro originalità e forza provocatoria (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet). Infine, si è voluta accettare in blocco l’ultima produzione dell’Italnoleggio, per verificare i risultati di una politica degli autori fuori dal meccanismo del capitale privato. Due opere del cinema “pubblico” hanno aperto la serie di “Proposte di nuovi film”: Il caso Raoul di Maurizio Ponzi e Irene Irene di Peter Del Monte. Mentre il gruppo di Unità Produttiva del Centro Sperimentale, con una relazione intitolata Strutture di produzione e significazione, ha sostenuto la necessità di uscire dalla dimensione “espressiva” per occuparsi più strettamente del cinema come industria culturale, proprio due autori distribuiti dall’Italnoleggio hanno aperto la serie italiana delle proiezioni con due film che sembrano lontani da ogni riferimento esplicito alle formule più attuali del linguaggio “politico”.
Ponzi ha costruito una storia tenera e crudelmente poetica sul caso di un giovane che l’angoscia di una vita priva di identità porta a chiudersi e ad essere rinchiuso in manicomio. La storia che passa sullo schermo suscita nello spettatore riflessioni su una complessa problematica, evitando l’adesione istintiva a certi modi di comportarsi, a certi sadismi, e porta invece ad un’analisi spietata delle ragioni sociali dell'”estraneità” del protagonista. Raoul è un bambino “adottato” dalla sua stessa famiglia che non intende riconoscerlo come figlio vero. Cresce accanto al “fratello” più grande che in realtà è il padre e subisce i contraccolpi di una situazione equivoca. Pieno di riferimenti culturali anche in senso cinematografico, ma non intellettualistico, Il caso Raoul si apprezza soprattutto per la sua indifesa poeticità; questo anche se dal punto di vista della costruzione dei personaggi si nota qualche spaccatura, qualche sottolineatura nel senso della “verità” psicologica, che nuoce alla feconda ambiguità complessiva.
Solo apparentemente psicologico è il film di Del Monte, Irene Irene, le cui “lentezze” soprattutto nella recitazione sollevano in primo piano una tematica meno mediata rispetto a una situazione di crisi anche politica che lo spettatore non fatica ad indentificare. È la storia di Guido Boeri (Alain Cuny), un magistrato presidente di tribunale. A 60 anni, improvvisamente, Guido è portato a un doloroso riesame della propria vita e delle proprie concezioni dalla violenza “privata” che esercita su di lui la scomparsa della moglie, Irene appunto, la quale da un momento all’altro lo lascia in cerca del proprio equilibrio, svanito – com’ella dice nelle poche righe di addio – nella pace di quella casa. Una pace fondata sulle “certezze” di quanti, nonostante la guerra, hanno voluto continuare a vivere sul filo di astrazioni idealiste e di pregiudizi borghesi. Il protagonista muore, solo nello scompartimento di uno dei tanti treni della sua ricerca “privata”; ma la morte non è privata, è piuttosto l’ultimo colpo portato a un’ideologia in crisi, fondata sui privilegi di una classe disposta a tutto pur di sopravvivere. Chi è Silvano, il figlio di Guido, se non un nuovo fascista, pronto a condannare come “pazza” la madre che ha “donato” le terre ai contadini? A lui si contrappone Guido con la sua riflessione su una libertà ancora tutta da conquistare (lasciare libera Irene, «in attesa di capire di più»); e si contrappone Emilia sua moglie (Olimpia Carlisi, con le sue “mostruose” capacità trasgressive rispetto alle consunte maniere del cinema commerciale). Emilia dà la botta decisiva all’involucro psicologico in cui sembrano rinchiusi i personaggi. Non a caso il film finisce sul primo piano della Carlisi, un primo piano che resta a lungo nella memoria, uno splendido e umanissimo punto interrogativo sul futuro-presente. La dimensione “storica” è data alla ricerca di Guido da una brevissima Maria Michi, piena di ironia e di giusto antinaturalismo. Tutti meriti del regista, che ha saputo far crescere il dubbio dello spettatore senza accentuare lo stile drammatico, e anzi schivando lo stile, mantenendolo severo, pulito e tuttavia non meno ricco, colto.
Degli altri film e dei molti seminari, convegni, tavole rotonde in programma vi parleremo nelle prossime settimane.
Franco Pecori Nella Biennale-laboratorio non c’è posto per la mondanità Giorni, 10 settembre 1975
10 Settembre 1975