Costa-Gavras, Il metodo amerikano del cinema politico
Sui rapporti tra linguaggio politico
e linguaggio cinematografico
Responsabilità della stampa democratica
A proposito del film L’amerikano, di Costantin Costa-Gavras, 1972.
Il fenomeno del cinema politico, inteso come denuncia di fatti e discussione di temi politici attraverso i canali del cinema commerciale, continua a non essere chiaro da più punti di vista.
Ci siamo già espressi sull’argomento nel febbraio-marzo 1970 e nel settembre 1972 (cfr, L’anticinema e la relazione da Pesaro, in Filmcritica nn.204-205 e 227), ma l’ultimo film di Costa-Gavras, L’amerikano, propone daccapo i termini di un problema che non è tanto di una valutazione filmica quanto della responsabilità in certe mistificazioni ideologiche a cui la stampa quotidiana non può venire sottratta. Se un socialista quale Lino Miccichè contrappone (cfr. l’Avanti! del 23 marzo 1973) il suo giudizio positivo sull’Amerikano ai «molti vaniloqui teorici» in materia di cinema politico, sintetizza praticamente, facendola sua, la tesi, variamente affermata a Pesaro 72, dell’astrattezza e inutilità delle teorie. Non si tratta dell’avversione per alcune o «molte» teorie, bensì del rifiuto a misurare il giudizio critico su un qualsiasi parametro teorico, dato che non esiste alcuna teoria (tranne quella forse del “realismo” del primo Lukács) che possa sostenere certe valutazioni “politiche”. Non solo di Miccichè, ma anche di Savioli (Unità), Biraghi (Messaggero), Argentieri (Rinascita), Moravia (Espresso), ecc.
Per un verso, la parte benpensante e conservatrice del pubblico è portata a considerare volgare propaganda ogni messaggio che implichi una riflessione dichiaratamente politica. L’ “obiettività” è considerata nobile e unica garanzia dell’autonomia del giudizio, la “parzialità” del discorso politico è dunque tenuta in sottordine. D’altro canto, proprio tale atteggiamento fa sì che i tentativi di politicizzare in maniera esplicita i messaggi cinematografici provengano da sinistra. E siccome i mezzi di produzione restano quelli legati al circuito commerciale, prevale, anche per certi film “politici” la tendenza ad avere un consenso sempre più sicuro e prevedibile; il progetto, la produzione, la distribuzione, il pubblico: tutto secondo le leggi del cinema di genere. Il cinema “politico” si è creato così una specie di tradizione, paradossalmente contrastante con i presumibili intenti progressivi del messaggio. Sicché abbiamo una situazione interessante: proprio il cinema di genere, il cinema che apparentemente rifiuta il discorso teorico, è anche il cinema che, in pratica, si dimostra più lucido nell’uso delle forme: la convergenza dei procedimenti tecnici nello stereotipo stilistico presuppone infatti l’implicito riconoscimento del cinema come processo semiosico. E la massificazione del fruitore non può non essere l’obbiettivazione di un comportamento iperistituzionalizzato, le cui forme sono analizzabili. E’ appunto l’istanza di analiticità a promuovere le discussioni teoriche sul tema dei rapporti formali tra messaggio politico e linguaggio cinematografico; discussioni che risalgono ai tentativi di impostazione teorica della Scuola Statale di Mosca, fondata da Lenin.
Nei locali più “rispettabili”, la borghesia si reca a vedere film che sembrano fare apertamente discorsi rivoluzionari. C’è da chiedersi il perché di questo strano successo. Cercare una risposta significa prima di tutto impostare una metodologia di analisi adeguata all’oggetto.
Diamo almeno un paio di riferimenti.
«Nella nostra attività scientifica la teoria ha per noi valore solo come ipotesi di lavoro per mezzo della quale individuare e comprendere i fatti, cioè percepirli come regolati da leggi e farli diventare materiale di ricerca. (…) Stabiliamo principi concreti e ci atteniamo ad essi nella misura in cui siamo giustificati dal materiale» (Ejchenbaum); «Oggetto della scienza della letteratura non è la letteratura ma la letterarietà, cioè ciò che di una data opera fa un’opera letteraria. Invece finora gli storici della letteratura hanno soprattutto scimmiottato la polizia che, quando deve arrestare una determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e qualsiasi cosa si trovi nell’appartamento e anche chi per caso si trovi a passare nella strada accanto» (Jakobson).
La tecnica della rivoluzione, e dunque anche il suo linguaggio, non può essere la stessa della reazione. Questo è sostenuto dalla stampa democratica per smontare certi falsi indizi, reperiti dalle destre in occasione dei fatti politici più violenti. Per il cinema, invece, dovrebbe essere diverso: la tecnica non sarebbe più rivelatrice e tutto l’insieme dei procedimenti sarebbe uno spazio neutro in cui possono trovare sistemazione le più svariate espressioni. Se la tecnica non può essere la stessa, il modo di distinguerla non può che essere l’analisi. Ma la sinistra in panciolle sfoggia il suo disprezzo per i «vaniloqui teorici», esaltando un film come L’amerikano di Costa-Gavras.
Non vogliamo invitare la stampa quotidiana a sostituire il giudizio critico con l’analisi. Questo però non significa che alla base dei giudizi critici, e magari anche schiettamente politici, non debba essere una posizione teorica sufficientemente chiarita.
Miccichè definisce «autorevole intervento concreto» il film di Costa-Gavras, «dotato di una indubbia qualità spettacolare e formale». Di dove verrebbe l’”autorevolezza” del film e del giudizio critico sul film? Dall’essersi basato il regista su fatti di notevole portata politica, realmente accaduti. Ma riferirsi a dei fatti non dà garanzia sul piano della comunicazione, né su quello estetico: «Il materiale realistico – diceva Tomasevskij nel 1928 – non è di per sé una costruzione artistica; per renderlo tale bisogna organizzarlo secondo le leggi particolari di una data composizione (…), leggi che, dal punto di vista della realtà effettiva, sono sempre convenzionali. Cfr. La costruzione dell’intreccio, in I formalisti russi, Einaudi, 1968.
Al di fuori della funzionalizzazione semiotica del procedimento, il termine realismo non ha molto senso. Chiunque non si sia fermato ad una lettura superficiale di Lukács, sa che quello di realismo è un concetto oltremodo confuso e pieno di trabocchetti. Usarlo in maniera indeterminata ed equivoca equivale a connotare il discorso in direzione autoritaria.
Franco Pecori Il metodo amerikano del cinema politico Filmcritica n.232, marzo 1973
1 Marzo 1973