Jazz, Le ragioni del Free
* L’affermazione del Free Jazz, nella prima metà degli anni Sessanta, fu accolta in modo negativo da quasi tutta la critica. In Italia, decisamente contrari furono i giudizi della rivista Musica Jazz, diretta da Arrigo Polillo. In sostanza, si disse: «Non è jazz», ripetendo l’errore storico commesso da molti col Bebop. Paradossalmente, la musica di Parker era presa a modello, proprio dai detrattori del Free, per definire i limiti invalicabili dell’espressione jazzistica. L’articolo riportato sotto nei suoi passi essenziali apriva una nuova fase di discussione. Ed era stato preceduto da una mia “Lettera al Direttore”, pubblicata nel n. 235, del dicembre 1966.
Ecco qualche stralcio di quella Noterella di estetica:
L’oggettualità dell’opera d’arte, in base alla quale l’opera si distingue, è data dalle sue modalità tecnico-linguistiche (rispetto alla distinzione, l’opera è un oggetto empirico). L’intenzionalità dell’opera d’arte, in base alla quale l’opera si diversifica, è data dalla sua qualificazione storico-culturale (rispetto alla diversificazione, l’opera è un fenomeno intenzionale). Nel giudizio estetico le due componenti (distinzione-diversità) sono connesse.
Quando si dice: «questo non è jazz», ci si deve preoccupare che il giudizio sia frutto di un esame oggettuale-intenzionale e non solo di un approccio empirico. Altrimenti, non si ha il diritto di dire: «questo non significa niente», o «questo significa poco». C’è infatti una stretta connessione tra semanticità e intenzionalità. L’oggetto è segno solo in quanto sia posto come segno. Un’analisi oggettuale può essere rivolta solo all’oggetto oggettuale.
Un oggetto culturale è sempre distinguibile da un oggetto naturale: l’oggetto culturale è costituito da segni. Un segno, per quanto apparentemente gratuito, non è mai immediato. E cioè può essere assunto a modello o comunque rappresentare una variante di modello.
Se il potere istituzionalizzante del segno non ha radici misteriose, dobbiamo dire che il segno, per essere istituzionalizzante, deve essere in qualche modo istituzionalizzato. Alla base di un segno (istituzionalizzante), quale può essere anche una serie di poche note prodotte dal musicista “free”, si trova comunque una storia di segni, che presiede, per così dire, alla nascita di quel segno ed è condizione del suo relativo sviluppo.
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I nemici più pericolosi dell’avanguardia sono coloro che l’accusano di voler rifiutare […] tutto ciò che viene prima. A parte le umoristiche soluzioni del tipo di quella secondo cui la dodecafonia sarebbe stata inventata perché delle sette note tradizionali si erano ormai trovate tutte le possibili combinazioni – si tratta invece della cancellazione della distinzione tra dissonanza e assonanza […]. La dissonanza come fonte di reazione istintiva, di turbamento, è elemento tipico dell’ascolto tardo-romantico. L’ascolto dodecafonico è invece di tipo intellettuale – […], la tesi di coloro che vorrebbero fare dell’avanguardia nient’altro che l’impotente conato di creazioni “ex novo”, per bollarla poi moralisticamente in nome della tradizione dei sacri Padri, non regge perché si basa sull’equivoco […] di credere nella possibilità di una creazione “ex novo” […]. L’avanguardia non vuole ridicolizzare né Michelangelo né Beethoven: essa si schiera non contro l’opera degli artisti ma contro chi, attraverso astratte ed arbitrarie sistemazioni, vorrebbe tramutare in regole quelli che invece sono segni di uno stile, di un momento, di una situazione. L’uomo si forma del mondo un’immagine che è diversa nelle diverse epoche e nei diversi ambienti: con il variare di questa immagine variano anche le idee sul bello e si mutano le disposizioni ricettive e quindi le esigenze estetiche. L’opera d’avanguardia non nasce mai come un fungo: non è essa a mettere in crisi le vecchie concezioni, ma è piuttosto la crisi di queste a produrre lo scatto dell’avanguardia. […] Particolarmente nella musica, non v’è mai stata una differenziazione e una variabilità di stili così profonda e sconvolgente come nel nostro tempo. […] Il passaggio dalla musica classica a quella romantica, e anche quello da Bach al classicismo, non era stato altrettanto violento. Era pur sempre rimasto un legame tonale. Ora, invece, la crisi riguarda la sostanza stessa della costruzione. Sono rifiutati i princìpi tonali fissi, i sistemi tradizionali di ordinare i suoni; i musicisti rinunciano qualche volta allo stesso materiale sonoro usato per millenni […]. Il discorso è trasferibile dalla musica alle altre arti.
Quella riflettuta oggi dall’arte è la realtà della scienza. (…) Dopo la teoria quantica, la fisica non ritiene più di poter formulare delle “leggi”; pensa invece ad un’onda di probabilità (intesa la probabilità in senso statistico). […] Al continuum significativo si è sostituito il frammentario fatto casuale, spoglio di veli, disintegratore di ideologie. […] Al di là delle semplici reazioni affettive, dobbiamo riconoscere come dal disarmo delle superbie metafisiche nasca la spinta per una cultura comune (un milieu per la trasmissione dei messaggi), in una specie di uguaglianza morale e sociale, che, ponendo tutti nella medesima situazione critica, obbliga il lavoro di ognuno ad intersecarsi con il lavoro degli altri. […] La distanza tra la gente comune e la scienza è stata sempre grande, ma ora, con l’accelerazione vorticosa impressa alla ricerca dal progresso tecnologico, tale distanza, divenuta grandissima, ha creato nuovi e più gravi problemi. […] E’ sopravvenuta una disfunzione del linguaggio tradizionale […]. Il problema è di insegnare a “leggere” i nuovi messaggi […]. La situazione si va facendo sempre più irreversibilmente “aperta” e, per giunta, ad una velocità “spaziale”: «Le domande che noi consideriamo le più assillanti saranno modificate prima che se ne abbia la risposta, saranno sostituite da altre, e lo stesso processo della scoperta manderà all’aria i concetti di cui ci serviamo per descrivere le nostre perplessità» (J. R. Oppenheimer). […] L’artista entra con pieni diritti e con tutti i doveri nel campo della ricerca. […] Per lo scienziato come per l’artista, l’importante è stabilire un raggio di ipotesi operative, che permettano di sopravvivere, di continuare l’esperienza.
Dovremmo ora inserire nel discorso la questione del free jazz. Ma […] non possiamo non prendere in esame, prima, quello che dai più è considerato il punto cruciale della problematica artistica contemporanea. Stiamo parlando dell’Informale, un’arte che rinuncia alla “rappresentazione”, all’equilibrio, al distacco dell’oggettivazione […]. Durante il Rinascimento italiano, il “vedere”, la contemplazione è considerata momento essenziale dell’esperienza. Sotto c’è tutta una concezione del mondo come frutto della volontà creatrice di Dio: l’esperienza non può essere aggiuntiva rispetto al disegno divino e quindi il fare umano è in realtà un ri-fare, da cui il concetto di arte come imitazione, “mimesis”. Ora, se noi […] diciamo che l’esperienza non esiste in toto, ma ha bisogno per vivere di una continua indagine, diviene essenziale la componente “volontà umana”. […] L’attività del ricercatore non sarà imitativa, ma sostanzialmente fattiva. […] Lo scienziato non tende all’astratta verità, ma alla funzionalità operativa. […] Il segno è l’ipotesi dell’artista. Ecco il significato dell’Informale, che non consiste affatto nella rappresentazione di fenomeni sfuggenti ai nostri sensi o che, perlomeno, non abbiamo l’abitudine di cogliere. […]
Dopo quanto abbiamo detto, il discorso sul free jazz è praticamente già fatto […]. Sarà bene, ad ogni modo, precisare alcuni punti. Prima di tutto la questione del nome. Il termine “free” non crediamo si possa accoglierlo in assoluto. Certe illusioni sono di tipo idealistico […]. Il termine va bene invece come riferimento polemico nei confronti della tradizione musicale, fondata su una concezione tematica, armonica, “chiusa” del mondo […]. Ci sono poi le accuse di arbitrarietà, di “gratuito”, o perlomeno di disordine. […] Il fatto è che l’apparenza di caotico disordine è dovuta proprio al rifiuto di un’arbitrarietà: i musicisti tengono conto, nei limiti dell’intersoggettiva relatività, delle condizioni di “apertura” sotto cui il mondo si presenta loro. […] Non si tratta di un caos, ma di un “ordine” statisticamente aperto, fino al punto di risultare spesso incontrollabile, se posto in una prospettiva probabilistica troppo ristretta, quale potrebbe essere quella di un ascolto tematicamente intenzionato. E comunque, agli effetti del giudizio estetico, se l’apertura del messaggio non dà per sé alcuna garanzia di “riuscita” artistica, tale garanzia non è fornita neanche dal fatto che esista, invece, un punto di riferimento esplicitamente precostituito: è garantita, se mai, la schematicità derivante da quel determinato riferimento (l’armonia, il tema, il ritmo). L’ultimo jazz è catalogabile, per tutto quel che s’è detto, solo a livello metodologico. Unico denominatore comune, per i musicisti “free”, possiamo dire che sia la tendenziale volontà di ricerca e la fiducia nella libertà intersoggettiva come medium di tale ricerca. Dall’improvvisazione concepita su tali basi risulterà non un’opera ma un’ipotesi operativa, caratterizzata, tecnicamente, da una certa simpatia di alcuni moduli espressivi tra loro, e, stilisticamente, dalla musica risultante dall’intersecazione delle particolari “storie” dei musicisti. Rimane aperto il problema critico […] Anche il lavoro del critico è un lavoro sperimentale […]. Le sue difficoltà stanno nell’evitare il sistema e nel muoversi con il solo aiuto del metodo […]. In ogni caso, bisognerà stare attenti a non giudicare il free con la mente di coloro che rimproverano a Picasso di aver dipinto volti umani con tre occhi.
Franco Pecori Le ragioni del Free, Musica Jazz n.237, febbraio 1967
1 Febbraio 1967