Crisi del jazz e nuova musica
Con tanta voglia di un’ispirazione in più
«C’è sempre chi aspetta il nuovo messia del jazz, ma ciò non ha niente a che fare con la musica di oggi». Ce lo diceva Anthony Braxton recentemente. E Sam Rivers ha detto la stessa cosa ad Arrigo Polillo: «Non è più tempo di leaders». Cosa volevano dire questi due protagonisti del jazz e della musica “creativa” degli anni Settanta? La chiave sta nell’atteggiamento verso la musica: «Mi sento ancora uno studente», dice Braxton. E aggiunge: «Bisogna studiare la musica di tutto il mondo».
La creatività non viene dal nulla. Chi ha più dati a disposizione ha più probabilità di fare qualcosa di nuovo, di farlo consapevolmente: sapendo prima di tutto che non si tratta di fare un passo in avanti in un cammino già segnato (ah, gli idealisti che hanno in testa la loro brava storia del jazz, fatta di “grandi” e di “minori”…), ma che la novità, intanto, è proprio di aver capito che le strade possono essere molte.
Il jazz degli ultimi anni si muove con questa coscienza. Perciò non ci sono più le battaglie degli stili. Tutti i musicisti si sentono partecipi dello stesso discorso, che è molto vario e nel quale c’è posto per tutti. Negli anni Trenta e Quaranta c’era un accentuato spirito di competizione, ma oggi il musicista non vuole più sentirsi un cavallo da corsa. E l’ascoltatore-critico non deve aver bisogno del “grande” jazzista – la cui “grandezza”, poi, è mito tutto da analizzare – per credere nella validità della musica jazz o della nuova musica di derivazione jazzistica.
Si può accettare di parlare di crisi del jazz, ma è chiaro che non siamo più di fronte ad una delle solite crisi ricorrenti, le crisi di “ispirazione”, viste con l’ottica di chi a scuola ci parlò del Medioevo come dell’età oscura. La crisi del jazz attuale è la crisi del mondo attuale. E allora cerchiamo di prendere dalla musica creativa alcune indicazioni positive: la disponibilità alla riflessione, l’apertura al discorso, la voglia di studiare, di trovare nuovi modi di costruire le immagini sonore (il ritorno alla composizione non dev’essere visto come un semplice riflusso: il confronto interno tra improvvisazione e composizione, in una prospettiva di espansione della musica e non di chiusura tradizionalista, può dare frutti importantissimi), la tendenza a suonare insieme (la ricerca della dimensione orchestrale, risvolto del solismo inteso come esigenza di avere col pubblico un rapporto profondo); e infine, non ultima, la volontà di gestire la propria vita di musicisti in una realtà aggressiva, emarginante, distruttrice di memoria, come quella americana. Non per niente i jazzisti migliori vengono spesso in Europa. Non è certo un segno negativo.
Steve Lacy
Franco Pecori, Jazz in crisi? Con tanta voglia di un’ispirazione in più, la Repubblica, 6 giugno 1980
6 Giugno 1980