Jazz, Le ragioni del pubblico
L’uomo si forma del mondo un’immagine che muta a seconda delle epoche e degli ambienti.
E variano anche le idee sul bello. Il valore dialettico dell’ascolto musicale verso la nuova produzione.
Nell’articolo su Le ragioni del free (Musica Jazz, febbraio 1967) facevamo riferimento ai problemi di una critica che voglia porsi di fronte alla situazione artistica attuale con spirito moderno e senza pregiudizi idealistici. E dicevamo: «L’uomo si forma del mondo un’immagine che è diversa nelle diverse epoche e nei diversi ambienti. Con il variare di questa immagine variano anche le idee sul ballo e si mutano le disposizioni ricettive e le esigenze estetiche». È un discorso che implica una chiara apertura verso l’interazione produzione-ricezione nel fatto musicale. L’asincronismo tra produzione e accettazione dell’opera non si può far risalire semplicemente alla “stravaganza” del musicista. Si dovranno cercare le ragioni della “sfasatura”.
La storia dell’arte è una storia della produzione e insieme dell’accettazione o meno delle opere. In effetti, il “prodotto” è l'”oggetto” essenziale per la formazione della fantasia dell’ascoltatore, ma anche l’ascoltatore influenza l’attività del musicista, il quale è un uomo sociale. Di solito, chi si occupa di musica affronta la questione in modo troppo unilaterale, non tenendo conto delle diverse possibilità ricettive dell’ascoltatore. Mentre invece è importante non far coincidere il discorso sulla musica con il discorso sulla produzione musicale e basta. La differenziazione dei procedimenti fantastici dell’autore e del fruitore non può non essere di capitale importanza per la determinazione del campo musicologico. Basti pensare che la fantasia dell’ascoltatore si esercita necessariamente solo sulle opere esistenti, le quali spesso arrivano all’ascolto con grande ritarso. Schoenberg, ad esempio.
Nel jazz, abbiamo tutta una storia di non-accettazioni, di rivolte: da parte di molti fruitori e da parte dei musicisti. Non intendiamo con ciò considerare schematicamente da una parte i musicisti, protesi verso l’evoluzione del linguaggio, e dall’altra il pubblico “reazionario” che accetta solamente quanto già rientra nelle sue abitudini di ascolto. Del resto, una tipizzazione degli ascoltatori non presenterebbe difficoltà minori di quella dei musicisti. Le attitudini “naturali”, la sfera culturale, l’ambiente, sono tutti elementi capaci di dar vita ad una varietà praticamente infinita. Appare chiaro comunque che i conflitti tra artista e pubblico saranno direttamente proporzionali alle sfasature derivanti dall’intersecazione dei coefficienti – diciamo così – soggettivi e oggettivi. E di tali conflitti è importante tenere il dovuto conto. Un errore, per esempio, può essere di riferirsi allo “sviluppo” dello stile puntando l’interesse quasi esclusivamente sui “grandi” musicisti. Ne verrebbe fuori una serie di geniali invenzioni non sufficientemente motivate sul piano strutturale. Oppure, c’è chi sottolinea con un «purtroppo» la tendenza sempre più accentuata dei jazzisti moderni a suonare «seriamente»; ci si lamenta insomma che si voglia fare del jazz un fatto di cultura. Sono ingenuità elementari.
Se consideriamo la cultura come il mondo dei segni, ogni atto in qualche modo è intenzionale nella cultura ed è impegnativo nei fronfonti del mondo. Nessuno si sognerà di disprezzare tutte le produzioni “utilitarie”, “illustrative” ecc., che nella storia della musica vanno dal corale gregoriano e dalla lirica trobadorica al madrigale, alla villanella, al “ballet de cour”, ai successi di moda del XX secolo. Tutta questa produzione è una componente importante appunto in funzione dei rapporti di interazione e di resistenza di cui si diceva. Lo stesso discorso vale per il jazz. C’è un jazz “allegro”, che si segue battendo il tempo con il piede, ed è il jazz più accettato dal “pubblico”. Non è detto che non possa funzionare anche da spinta, stimolante della fantasia di musicisti impegnati su altri versanti espressivi. Dobbiamo rispettare sia il “divertimento”, sia la tensione rinnovatrice. Possiamo dirla anche in un altro modo: chiascuno si diverte come può.
Troppo semplice è bollare di intellettualismo il jazz moderno e d’avanguardia nel nome di una “tradizione” disimpegnata. Il problema sarà di analizzare la situazione culturale in tutte le sue implicazioni e rimuovere, se mai, le cause del presunto sofisticamento del jazz. Altrimenti si rischia di ricadere in posizioni reazionarie ad ogni nuova prospettiva stilistica. In questo senso la critica ha un compito di grande responsabilità. Popoli che fino a ieri vivevano musicalmente all’interno della loro etnografia e rappresentavano per gli occidentali le cosiddette culture “esotiche” tendono a proporre la propria cultura “alla pari” nella tradizione mondiale. In un tempo presumibilmente non lungo supereranno lo stadio folkloristico e ci porranno problemi di decifrazione e di accettazione. Certo, chi scriveva i salmi ad maiorem gloriam Dei non aveva la preoccupazione di “superare” i canoni di scrittura, intendeva anzi sottomettervisi per dimostrare la devozione alle regole della Chiesa. E certo, il suonatore nero, inserito tristemente nei paesaggi della propria schiavitù fisica o psicologica, è invece portato a dimostrare la sua rivolta, superando i canoni che testimoniano per lui la presenza di ben altra chiesa. Ed è certo, infine, che l’ascoltatore non è mai imparziale, ma si crea, ascoltando, le sue categorie ricettive. E bisognerà sforzarsi di mettersi anche nei panni del “semplice ascoltatore”, lavoro quantomai necessario quando si esaminino certi aspetti dell’avanguardia musicale. La storia insegna: Wagner, Stravinsky, Schoenberg, Webern, Parker, tutta una serie di produzioni prima respinte e poi accettate – ci si può spingere anche più indietro, fino a Schubert, a Monteverdi, fino alle dispute sull’Ars Nova (il titolo stesso del trattato di Philip de Viry è indicativo).
La libertà, il diritto del musicista di essere libero, di essere all’avanguardia sono argomenti validi, ma la vita è relazione, comportamento. È quindi necessario chiarire i motivi che rendono la relazione problematica. Solo così certe resistenze del pubblico verso la nuova produzione artistica potranno utilizzarsi criticamente come componente reattiva, stimolante per il seguito della produzione. In effetti, il jazz appare proprio come il manifesto vivente di una rivolta libertaria, ma finché i fondamenti psicologici dell’improvvisazione si manifestavano nei limiti della rielaborazione di modelli dati, l’attività fantastica rimanendo contenuta entro sicuri canoni, le “novità” non suscitavano risentimenti radicali. Le cose cambiano quando il jazz si propone come rivoluzione sonora, portando in primo piano il portato alogico dell’improvvisazione e catapultando sulla massa degli ascoltatori novità immediate. Qui il jazz accresce di molto un certo suo potere “educativo”, il materiale sonoro è operativamente aggiuntivo. Il conflitto musicista-pubblico si acuisce, non si tratta però di una semplice “incomprensione”. Un certo rifiuto viene anzi proprio dalla “comprensione” del disturbo arrecato alla concezione mandarinistica dell’ascolto. Si tratta probabilmente di una disperata difesa verso le minacce arrecate al sistema.
Da una parte, dunque, le ragioni del musicista, con la sua istanza di libertà e di progresso, dall’altra le ragioni del pubblico: ragioni dialetticamente concorrenti al proseguimento dell’esperienza. La consapevolezza critica di tali ragioni non potrà che aiutare la musica a svilupparsi nelle direzioni necessarie a se stessa.
Franco Pecori Le ragioni del pubblico Musica Jazz, n. 11, novembre 1967
1 Novembre 1969