Il resto di Jannacci e Califano
Gli eventi, a volte, si accoppiano e danno luce a significati dal senso sorprendente. E comunque non così pacifico come può sembrare all’apertura di un uovo pasquale. La doppia morte (chissà perché si dice “scomparsa”, parola orribile) di Enzo Jannacci e Franco Califano, il 29 e il 30 marzo 2013 – venerdì e sabato di Pasqua -, ha prodotto un effetto di finta sorpresa, al di là degli stereotipi consueti che riemergono ad ogni pensierino funebre in transito per la via dei massmedia. Dall’uovo celebrativo del primo artista è saltato fuori un Jannacci “faro per i giovani”. Ma quando mai? il bit della sua musica, interno alla sostanza profonda del jazz, era quanto di più lontano dal ritmo “contato in due” che fa muovere le nuove generazioni nelle discoteche. E la lettura (giusta!) del “no, tu no” come riferimento agli esclusi e agli ultimi della società non si può dire che sia stata consueta nella circolazione interpretativa. Molto di più ha funzionato da specchio il trasformismo provocatorio di un Renato Zero (ancora vivente). Meno travisabile il cinismo romantico di Califano. In sostanza, il messaggio che “tutto il resto è noia” è così ampio e giustificativo da non annoiare affatto proprio coloro che della noia possono avere una qualche “paura”. E mentre l’accento dialettale di Jannacci costringe a rapportarsi a una realtà identificabile, la cui referenzialità è perciò (colpevolmente) trascurata dal fruitore più generico – il quale del resto trova già ostacoli non indifferenti nel ritmo e nel sound orchestrale jazzistico -, l’andamento romanesco del sexy “avventuriero” di Califano veicola quel tanto di testimonianza “miserabile” da poter essere vissuto con partecipazione fittizia, sufficiente per un risarcimento di inconsapevoli frustrazioni, “popolaresche” quanto universaleggianti. Tutto il resto sarebbe noia, ma il resto di che? Non c’è da aspettarsi sorprese.
Franco Pecori
31 Marzo 2013