Phil Woods a Perugia
Che jazz sofisticato
Annoia da morire
Phil Woods non è certo Dizzy Gillespie. Non per la statura artistica né per il carattere diverso, ma proprio perché la sua musica è senza emozioni, senza novità. Il sassofonista del Massachussetts (49 anni suonati da pochi giorni) lo ha dimostrato ancora una volta mercoledì sera al teatro Morlacchi di Perugia, settima tappa della tournée che lo ha portato con il suo quartetto (Mike Melillo pianoforte, Steve Gilmore contrabbasso, Bill Goowin batteria) da Milano a Pescara, Macerata, Palermo, Lisbona e Torino (oggi è a Ginevra, dopo di che ritorna in America, tranne Melillo il quale si ferma da noi per qualche giorno).
Avevamo ascoltato Woods a Macerata nel ’77. Tale e quale, col suo contralto sofisticato e lezioso, perfetto, professionale. Qui a Perugia non gli ha giovato il fatto di aver suonato dopo Gillespie, che martedì aveva impressionato per la perenne vitalità e l’irresistibile umorismo. Woods ha tirato avanti per un paio d’ore, senza mai dare l’impressione di poter entrare nel vivo del discorso jazzistico, che invece Dizzy aveva fatto venir fuori senza mezzi termini e nonostante l’inadeguatezza della ritmica. Tutti parlano di Phil Woods come dell’erede «legittimo» di Charlie Parker. Sarà perché la vedova di Bird gli ha regalato il sax del marito scomparso, ma la delicatezza e la pulizia della sua musica producono una noia quasi mortale. Le sue finezze sono buone per i “fans”, per gli “appassionati” che amano trastullarsi col jazz come si fa con le collezioni di francobolli. Parker non c’entra.
Il Down Beat, la rivista specializzata di Chicago, ha messo al primo posto il quartetto di Woods nella graduatoria assoluta compilata annualmente. Ma il jazz non è fatto per le classifiche. Negli anni Trenta non furono certo né Basie né Ellington ad essere incoronati “re” dello Swing. L’eccelsa virtuosità di Phil Woods va rispettata, insieme ad un suo buon gusto, che gli permette di suonare senza amplificazione, come ha fatto anche mercoledì. Ma forse certa musica sarebbe più adatta all’ambiente dei club privati: portarla in un teatro come il Morlacchi, pieno solo a metà, dopo che la sera prima una folla entusiasta aveva salutato Gillespie con grandi ovazioni, ha voluto dire anche mettere Woods a confronto con una capacità di tenere la scena, che Dizzy ha da vendere e che non rientra nelle doti del sassofonista e dei suoi tre distinti accompagnatori.
Non sempre il modello giusto, per il jazz, è detto sia quello del concerto organizzato alla grande, secondo l’idea tradizionale di “cartellone”. Fanno bene gli enti locali, Comune e Regione, a considerare in una prospettiva unitaria ed organica le proposte che provengono dai due centri jazzistici perugini, il “Charlie Mingus” (Arci) e il “Jazz Club”. «Per il prossimo anno – assicura Enzo Coli, assessore alla Cultura di Perugia – costituiremo una commissione musica, in modo che le proposte culturalmente valide siano realizzate su una base di largo consenso. Il Comune non è disposto a coprire nessuna operazione commerciale». Per ora, resta la concorrenza dei due gruppi suddetti. Ai programmi del Jazz Club (Stan Getz, Buddy Rich, ecc.) l’Arci risponde con altri nomi (Anthony Braxton, Sam Rivers, ecc.), ma soprattutto con un’impostazione diversa, volta ad incentivare, come dice Mario Mirabassi (responsabile provinciale), «iniziative in tutta la regione, Terni, Spoleto, Foligno, Città di Castello, con attività culturali fuori dalla logica promozionale del club». Una cosa è sicura, che la spesa pubblica deve rispondere, anche per il jazz, ad esigenze largamente sentite dalla popolazione. Altrimenti non si esce dalle vecchie contraddizioni che hanno portato a chiudere una manifestazione come Umbria Jazz, che pure, sul piano artistico, era di levatura internazionale.
Franco Pecori Che jazz sofisticato, annoia da morire Paese Sera, 14 novembre 1980
14 Novembre 1980