Africamusica
Il primitivo fa lezione all’elettronico

Ensemble Agoromma, Ghana
Tamburi lontani
Più che opportuna, oltre che ben riuscita dal punto di vista della nutritissima partecipazione del pubblico, l’iniziativa fiorentina dell’Africamusica. Il comune di Firenze, d’intesa con la Società italiana di etnomusicologia, ha reso possibile l’organizzazione, curata dal Centro Flog per le tradizioni popolari, della Rassegna di musica dell’Africa subsahariana.
Dall’8 al 15 aprile, l’auditorium del Palazzo dei congressi ha ospitato i gruppi del Ghana, del Congo, del Burundi, del Mali,, della Nigeria e della Somalia. L’Ensemble Agoromma (Ghana), lo Yoruba-Ibo-Haussa Ensemble (Nigeria) e i Tamburinaires del Burundi si sono poi esibiti anche a Milano, Como e Roma, sempre con affluenze più che soddisfacenti; nel caso romano, addirittura insospettate, data la scelta del Folkstudio di portare la minireassegna al Tendastrisce, teatr-circo frequentato sempre più spesso dalle folle giovanili del rock. Ma evidentemente, la vertiginosa scollatura prodottasi nel mondo occidentale tra viver comune ed espressione artistica, come spinge a cercare nei riti musicali di massa compensazioni simboliche alle nevrosi dei rapporti sociali, tanto meglio può far trovare occasioni di consapevolezza culturale in una musica come quella africana, in cui ritmo e gesto, danza e patrola sono forme di spazio-tempo esplicitamente inscindibili dall’organizzazione della società. In questo senso, il primitivo fa lezione all’elettronico e il prezzo di un certo rischio di spaesamento, insito nella forma stessa di rassegna che simili iniziative devono prendere, ben vale la carica demistificatrice in esse contenuta.
L’esibizione, sia pur professionistica, di moduli culturali così pesantemente equivocati dalla civiltà occidentale (si pensi a che cosa poteva essere lo swing di un Benny Goodman, negli anni ’30, rispetto ai blues delle origini – per ciò che già nei blues era rimasto delle origini africane), produce un effetto di straniamento dirompente, che non può non portare a salutari riflessioni.
A Firenze, la gente ha avuto modo di frequentare i laboratori del pomeriggio al Poggetto e di rendersi conto un po’ più analiticamente dei valori e dei significati delle singole musiche: il tamburo parlante, lo xilofono con funzioni di narratore, la connessione tra concezione del tempo e trame rituali, il peso anche sociale dei grossi tamburi a calice che ripetono ossessivamente un privilegio di casta, l’alto livello di specializzazione di alcune forme recitative, verbali e gestuali. Sotto il tendone romano, l’impatto è stato più brutale, ma non meno produttivo, crediamo. Il problema non era tanto quello della spaesamento, quanto piuttosto della carenza di strumenti interpretativi, per cui il rappresentato musicale, spesso non semplice e di nint’affatto immediata comprensibilità, tendeva a venir cancellato a vantaggio dei valori più spiccatamente ritmici delle esecuzioni. Ed è stato a questo livello che il pubblico, in grande prevalenza composto da giovani frequentatori di musichette per disco, ha potuto rendersi conto di quale disstanza passi tra le rozze e massificanti semplificazioni del kitsch industriale e la complessa espressione di un autentico sentimento del tempo.
Franco Pecori, Tamburi lontani, Rinascita, 2 maggio 1980
2 Maggio 1980