La complessità del senso
09 06 2023

Leopardi, Schermo e siepe

 

Il piacere dell’infinito

Autunno 1819. Il ventunenne Giacomo Leopardi finisce di scrivere “L’infinito”. Si è parlato tanto di “piacere del testo” e di lettura come processo interpretativo virtualmente infinito. Possiamo definire la tensione che sta alla base dell’idillio leopardiano proprio come piacere dell’infinito.

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LO SCHERMO E LA SIEPE

I versi non provengono da una contemplazione statica, ma da una ricerca inesausta, teorizzata dal Leopardi, giusto nel luglio 1820, nello Zibaldone, come connaturata alla vita dell’uomo, portato a cercare «quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere» (p. 167). Questa « inclinazione all’infinito» (p. 168) si concretizza in una complementare capacità di «vedere subito i limiti» (p. 170) dell’oggetto del desiderio e di godere di ciò che sta oltre: «L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora, nel vedere il cielo ecc. attraverso una finestra…» (p. 172). Uno «spazio immaginario», non un panorama da contemplare. Una finzione dinamica, realizzata nei versi con economia di linguaggio, con razionalità di procedimento. L’ «anima» dello Zibaldone diventa pensiero: «nel pensier mi fingo». In alcune annotazioni di qualche mese prima è netta l’intenzione di distinguere la natura dall’arte e di valorizzare la funzione conoscitiva della tecnica: «Leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete subito che quella è natura, e vi meraviglierete (…) come sia tanto differente da quella che voi credete che sia natura. (…) Se volete esser poeta (…), cominciate, se siete un uomo di giudizio, a conoscer la necessità assolutissima dello studio» (p. 46). E poco più avanti: «In natura o non c’è alfabeto o molto più ricco che non si crede volgarmente» (p. 52). Tale attenzione teorica si traduce ne L’infinito in una lucidità tecnico-semantica, che caratterizza in modo forte l’immagine come immagine-idea, dove l’elemento chiave dell’intensa concentrazione e vibrante («per poco il cor non si spaura») espansione è la «siepe», tratto sensibile di una decisa confluenza tra pensiero e limite dello «spazio immaginario» di cui sopra.

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Spazio immaginario che, per come è costruito, fa pensare al cinema, o almeno a certe concezioni classiche del cinema, come la teoria dei fattori differenzianti dell’Arnheim, per cui proprio dai limiti dello schermo deriverebbe la possibilità di accostare le inquadrature e di renderle creative; o come la lezione generativa di Ejzenstein, laddove è sottolineato come «a un certo momento l’inquadratura si scomponga, esploda in una serie di inquadrature di montaggio». Tornando al Leopardi, la finzione intellettuale, “inquadrando” l’immaginario a partire dalla siepe (schermo), produce una serie di opposizioni, una successione di immagini-interpretanti, piene di energie trasgressive: siepe e ultimo orizzonte, voce del vento e silenzi sovrumani e profondissima quiete; stagione viva e presente e stagioni morte e l’eterno. Infine, il naufragare-dolce dell’ultimo verso. È da tale “montaggio” che nasce l’idea-immagine poetica. L’infinito non è nelle “inquadrature” che lo compongono, ma scaturisce dal loro accostamento e dalla loro composizione. «Il protagonista del cinema non è l’uomo visibile», diceva Tynjanov, contemporaneo di Ejzenstein. Il cinema, in quanto poesia, è tensione: oltre la «siepe», oltre l’«ultimo orizzonte», di là dallo schermo e dall’obiettivo.


Franco Pecori, La siepe e il piacere dell’infinito, in Lo schermo come soglia dell’infinito, Filmcritica, n. 228, ottobre 1972


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1 Ottobre 1972