Platone, Istanza teoretica
Platone (Aristocle), Atene 428/427-348/347 a.C.
ISTANZA TEORETICA
Φαίδων Fedone, 115 c., scritto nel 386 a. C.
Atene, 399 a.C. Socrate, condannato a morte, è in carcere, attorniato da cinque suoi discepoli, tra cui Fedone e Critone. Platone, assente perché malato, verrà informato da Fedone di quegli ultimi momenti del maestro e metterà per iscritto il racconto delle circostanze e dei discorsi, cogliendo l’occasione per esporre la propria dottrina delle idee. Per il lettore moderno, da tutto il dialogo traspare la fondamentale istanza teoretica, della necessità trascendentale del pensiero. Fulminante, proprio nel dialogo intitolato da Platone a Fedone, la battuta di Socrate sul proprio destino non mortale.
οὐ πείθω, ὦ ἄνδρες, Κρίτωνα, ὡς ἐγώ εἰμι οὗτος Σωκράτης, ὁ νυνὶ διαλεγόμενος καὶ διατάττων ἕκαστον τῶν λεγομένων, ἀλλ᾽ οἴεταί με ἐκεῖνον εἶναι ὃν ὄψεται ὀλίγον ὕστερον νεκρόν, καὶ ἐρωτᾷ δὴ πῶς με θάπτῃ.
Non mi riesce, ragazzi, di convincere Critone che Socrate sono io, io che parlo in maniera ordinata, non quello ch’egli vedrà morto tra poco…
Muore il corpo, non il pensiero. Andando oltre, possiamo dire che ogni idea non vive che al di là di se stessa. E non è un’ovvietà che una persona parli in modo ordinato.
IL POETA
Πολιτεία Politeia
Scritto tra il 390 e il 360 a. C.
La traduzione di Politeia in Repubblica è latina (Cicerone), ma il senso comprende anche: Condizione di cittadino, Cittadinanza, Vita politica, Forma di governo, Costituzione (cfr. Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, Società Editrici Dante Alighieri e S. Lapi, 1956 p. 1525).
Libro IX 397 a-b
Οὐκοῦν, ἦν δ’ ἐγώ, ὁ μὴ τοιοῦτος αὖ, ὅσῳ ἂν φαυλότερος ᾖ, πάντα τε μᾶλλον διηγήσεται καὶ οὐδὲν ἑαυτοῦ ἀνάξιον οἰήσεται εἶναι, ὥστε πάντα ἐπιχειρήσει μιμεῖσθαι σπουδῇ τε καὶ ἐναντίον πολλῶν, καὶ ἃ νυνδὴ ἐλέγομεν, βροντάς τε καὶ ψόφους ἀνέμων τε καὶ χαλαζῶν καὶ ἀξόνων τε καὶ τροχιλιῶν, καὶ σαλπίγγων καὶ αὐλῶν καὶ συρίγγων καὶ πάντων ὀργάνων φωνάς, καὶ ἔτι κυνῶν καὶ προβάτων καὶ ὀρνέων φθόγγους· [b] καὶ ἔσται δὴ ἡ τούτου λέξις ἅπασα διὰ μιμήσεως φωναῖς τε καὶ σχήμασιν, ἢ σμικρόν τι διηγήσεως ἔχουσα;
Quanto [il poeta] peggiore sarà, tanto più vorrà estendere l’imitazione, e non ci sarà nulla che egli non ritenga indegno di sé, e non si farà scrupolo di imitare ogni cosa e di esibire anche davanti a grandi folle tutto l’armamentario di cui facevamo cenno poco fa: schianto di tuoni, fischiar di venti, scroscio di grandine; cigolio di ruote e di pulegge; squilli di trombe, stridio di auli, lamenti di zampogne, e tutti i suoni dei più vari strumenti; e ancora, abbaiar di cani, belar di pecore e cinguettio di uccelli. E il suo dire si perderà tutto in questa fantasmagoria di imitazioni foniche e gestuali… e così addio narrazione. [Trad. Mario Vitali, Feltrinelli, 2008]
30 Aprile 2018