Poesie italiane 1200 – 1900
scelta e commenti di Franco Pecori
Francesco d’Assisi 1182-1226 Cantico di Frate Sole
Dante Alighieri 1265-1321 Rime, CXVII
Francesco Petrarca 1304-1374 Rime Sparse, XXXV
Ludovico Ariosto 1474-1533 Orlando Furioso, XIX, 20-37
Giuseppe Parini 1729-1799 Odi, Il messaggio (Per l’inclita Nice)
Vittorio Alfieri 1749-1803 Rime, La mestizia è in me natura
Ugo Foscolo 1778-1827 Sonetti, Alla sera
Giacomo Leopardi 1798-1837 Canti, L’infinito
Giovanni Pascoli 1855-1912 Canti di Castelvecchio, La mia sera
Umberto Saba 1900-1954 Il Canzoniere, Lina e la canarina azzurra
Giuseppe Ungaretti 1988-1970 Il porto sepolto, San Martino del Carso
Eugenio Montale 1896-1981 Quaderno di quattro anni, Senza mia colpa
Cesare Pavese 1908-1950 Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Vittorio Sereni 1913-1983 Stella variabile, Altro posto di lavoro
Franco Fortini 1917-1994 Foglio di via e altri versi, Foglio di via
Attilio Bertolucci 1911-2000 Viaggio d’inverno, Il tempo si consuma
Mario Luzi 1914-2005 Per il battesimo dei nostri frammenti, Vola alta parola
Giovanni Raboni 1932-2004 Quare tristis, Eroi dispersi
Francesco D’Assisi Cantico di Frate Sole
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione.
Ad te solo, Altissimo, se konfane,
e nullu omo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le tue creature,
spezialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, e allumini noi per luie.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significazione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite e preziose e belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
E per aere e nubilo e sereno e onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile e umile e preziosa e casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la notte:
et ello è bello e iocundo e robusto e forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta e governa,
e produce diversi frutti con coloriti flori et erba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
e sostengo infermitate e tribulazione.
Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace
ka da te, Altissimo, sirano incoronate.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu omo vivente po’ skampare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortale;
beati quelli ke trovarrà ne le tue santissime voluntate,
ka la morte secunda nogli farrà male.
Laudate e benedicite mi’ Signore e rengraziate
E serviateli cum grande umilitate.
Così eccezionale, per la sua epoca, la figura di Francesco, e pure così rappresentativa del sentire comune: come il suo linguaggio, esteso e profondo, “immediato” e meditato. Un miracolo della cultura.
Per quella via che la bellezza corre
quando a svegliare Amor va ne la mente,
passa Lisetta baldanzosamente,
come colei che mi si crede torre.
E quando è giunta a piè di quella torre
che s’apre quando l’anima consente,
odesi voce dir subitamente:
« Volgiti, bella donna, e non ti porre;
però che dentro un’altra donna siede,
la qual di signora chiese la verga
tosto che giunse, e Amor glile diede. »
Quando Lisetta accomiatar si vede
da quella parte dove Amore alberga
tutta dipinta di vergogna riede.
La capacità di Dante, di attingere al bagaglio ideale e all’esperienza quotidiana, utilizzando elementi evocativi della sfera colta e del vissuto nello stesso giro di frase.
Francesco Petrarca Rime Sparse, XXXV
Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger delle genti;
perché ne gli atti d’allegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avvampi:
sí ch’io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sempre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io col lui.
Sofferenza interiore e mondo esterno. Petrarca, mentre pratica la forma classica, non attenua la tensione sentimentale. Leopardi vedrà poi una natura incomprensibilmente (per lui) “nemica”. Ma la radice è fin d’ora l’Amore, qui con la maiuscola perché non spoglio della piena valenza letteraria.
Ludovico Ariosto Orlando Furioso, XIX, 20-37
Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal si dolea forte;
insolita pietade in mezzo al petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe’ il duro cor tenero e molle,
e più, quando il suo caso egli narrolle.
E rivocando alla memoria l’arte
ch’in India imparò già di chirugia
(che par che questo studio in quella parte
nobile e degno e di gran laude sia;
e senza molto rivoltar di carte,
che ‘l patre ai figli ereditario il dia),
si dispose operar con succo d’erbe,
ch’a più matura vita lo riserbe.
E ricordossi che passando avea
veduta un’erba in una piaggia amena;
fosse dittamo, o fosse panacea,
o non so qual, di tal effetto piena,
che stagna il sangue, e de la piaga rea
leva ogni spasmo e perigliosa pena.
La trovò non lontana, e quella colta,
dove lasciato avea Medor, diè volta.
Nel ritornar s’incontra in un pastore
ch’a cavallo pel bosco ne veniva,
cercando una iuvenca, che già fuore
duo dì di mandra e senza guardia giva.
Seco lo trasse ove perdea il vigore
Medor col sangue che del petto usciva;
e già n’avea di tanto il terren tinto,
ch’era omai presso a rimanere estinto.
Del palafreno Angelica giù scese,
e scendere il pastor seco fece anche.
Pestò con sassi l’erba, indi la prese,
e succo ne cavò fra le man bianche;
ne la piaga n’infuse, e ne distese
e pel petto e pel ventre e fin a l’anche:
e fu di tal virtù questo liquore,
che stagnò il sangue, e gli tornò il vigore;
e gli diè forza, che poté salire
sopra il cavallo che ‘l pastor condusse.
Non però volse indi Medor partire
prima ch’in terra il suo signor non fusse.
E Cloridan col re fe’ sepelire;
e poi dove a lei piacque si ridusse.
Ed ella per pietà ne l’umil case
del cortese pastor seco rimase.
Né fin che nol tornasse in sanitade,
volea partir: così di lui fe’ stima,
tanto se intenerì de la pietade
che n’ebbe, come in terra il vide prima.
Poi vistone i costumi e la beltade,
roder si sentì il cor d’ascosa lima;
roder si sentì il core, e a poco a poco
tutto infiammato d’amoroso fuoco.
Stava il pastore in assai buona e bella
stanza, nel bosco infra duo monti piatta,
con la moglie e coi figli; ed avea quella
tutta di nuovo e poco inanzi fatta.
Quivi a Medoro fu per la donzella
la piaga in breve a sanità ritratta:
ma in minor tempo si sentì maggiore
piaga di questa avere ella nel core.
Assai più larga piaga e più profonda
nel cor sentì da non veduto strale,
che da’ begli occhi e da la testa bionda
di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e più cura l’altrui che ‘l proprio male:
di sé non cura, e non è ad altro intenta,
ch’a risanar chi lei fere e tormenta.
La sua piaga più s’apre e più incrudisce,
quanto più l’altra si ristringe e salda.
Il giovine si sana: ella languisce
di nuova febbre, or agghiacciata, or calda.
Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce:
la misera si strugge, come falda
strugger di nieve intempestiva suole,
ch’in loco aprico abbia scoperta il sole.
Se di disio non vuol morir, bisogna
che senza indugio ella se stessa aiti:
e ben le par che di quel ch’essa agogna,
non sia tempo aspettar ch’altri la ‘nviti.
Dunque, rotto ogni freno di vergogna,
la lingua ebbe non men che gli occhi arditi:
e di quel colpo domandò mercede,
che, forse non sapendo, esso le diede.
O conte Orlando, o re di Circassia,
vostra inclita virtù, dite, che giova?
Vostro alto onor dite in che prezzo sia,
o che mercé vostro servir ritruova.
Mostratemi una sola cortesia
che mai costei v’usasse, o vecchia o nuova,
per ricompensa e guidardone e merto
di quanto avete già per lei sofferto.
Oh se potessi ritornar mai vivo,
quanto ti parria duro, o re Agricane!
che già mostrò costei sì averti a schivo
con repulse crudeli ed inumane.
O Ferraù, o mille altri ch’io non scrivo,
ch’avete fatto mille pruove vane
per questa ingrata, quanto aspro vi fôra,
s’a costu’ in braccio voi la vedesse ora!
Angelica a Medor la prima rosa
coglier lasciò, non ancor tocca inante:
né persona fu mai sì aventurosa,
ch’in quel giardin potesse por le piante.
Per adombrar, per onestar la cosa,
si celebrò con cerimonie sante
il matrimonio, ch’auspice ebbe Amore,
e pronuba la moglie del pastore.
Fersi le nozze sotto all’umil tetto
le più solenni che vi potean farsi;
e più d’un mese poi stero a diletto
i duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Più lunge non vedea del giovinetto
la donna, né di lui potea saziarsi;
né, per mai sempre pendergli dal collo,
il suo disir sentia di lui satollo.
Se stava all’ombra o se del tetto usciva,
avea dì e notte il bel giovine a lato:
matino e sera or questa or quella riva
cercando andava, o qualche verde prato:
nel mezzo giorno un antro li copriva,
forse non men di quel commodo e grato,
ch’ebber, fuggendo l’acque, Enea e Dido,
de’ lor secreti testimonio fido.
Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v’avea spillo o coltel subito fitto;
così, se v’era alcun sasso men duro:
ed era fuori in mille luoghi scritto,
e così in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in vari modi
legati insieme di diversi nodi.
Poi che le parve aver fatto soggiorno
quivi più ch’a bastanza, fe’ disegno
di fare in India del Catai ritorno,
e Medor coronar del suo bel regno.
Pietà, bagaglio culturale latino-cristiano, qui alibi letterario (letteratura romanza) per l’incontro di due ragazzi e per la scintilla amorosa, questa sì “eterna”. Medicine “naturali” per il corpo, ma la vera medicina per Medoro ferito a morte è l’amore di Angelica. Amore “trasgressivo” e insieme rispettoso delle regole (matrimonio). Amore “universale” anche socialmente: nobili e pastori coinvolti nella stessa vicenda. E, al fine, amore carnale: Angelica a Medor la prima rosa coglier lasciò.
Giuseppe Parini Odi, Il messaggio (Per l’inclita Nice)
Quando novelle a chiedere
Manda l’Inclita Nice
Del piè, che me costrignere
Suole al letto infelice,
Sento repente l’intimo
Petto agitarsi del bel nome al suon.
Rapido il sangue fluttua
Ne le mie vene: invade
Acre calor le trepide
Fibre: m’arrosso: cade
La voce: ed al rispondere
Util pensiero in van cerco e sermon.
Ride, cred’io, partendosi
Il messo. E allor soletto
Tutta vegg’ io, con l’animo
Pien di novo diletto,
Tutta di lei la immagine
Dentro a la calda fantasìa venir.
Ed ecco ed ecco sorgere
Le delicate forme
Sovra il bel fianco; e mobili
Scender con lucid’orme,
Che mal può la dovizia
Dell’ondeggiante al piè veste coprir.
Ecco spiegarsi e l’omero
E le braccia orgogliose,
Cui di rugiada nudrono
Freschi ligustri e rose,
E il bruno sottilissimo
Crine, che sovra lor volando va:
E quasi molle cumulo
Crescer di neve alpina
La man, che ne le floride
Dita lieve declina,
Cara de’ baci invidia,
Che riverenza contener poi sa.
Ben puoi ben puoi tu rigido
Di bel pudor costume,
Che vano ami dell’avide
Luci render l’acume,
Altre involar delizie,
Immenso intorno a lor volgendo vel:
Ma non celar la grazia
Nè il vezzo, che circonda
Il volto affatto simile
A quel de la gioconda
Ebe, che nobil premio
Al magnanimo Alcide è data in ciel.
Nè il guardo, che dissimula
Quanto in altrui prevale;
E volto poi con subito
Impeto i cori assale,
Qual Parto sagittario,
Che più certi fuggendo i colpi ottien.
Nè i labbri or dolce tumidi
Or dolce in sè ristretti,
A cui gelosi temono
Gli Amori pargoletti
Non omai tutto a suggere
Doni Venere madre il suo bel sen:
I labbri, onde il sorridere
Gratissimo balena,
Onde l’eletto e nitido
Parlar, che l’alme affrena,
Cade, come di limpide
Acque lungo il pendìo lene rumor;
Seco portando e i fulgidi
Sensi ora lieti or gravi,
E i geniali studii
E i costumi soavi;
Onde salir può nobile
Chi ben d’ampia fortuna usa il favor.
Ahi, la vivace immagine
Tanto pareggia il vero,
Che, del piè leso immemore,
L’opra del mio pensiero
Seguir già tento; e l’aria
Con la delusa man cercando vo.
Sciocco vulgo a che mormori,
A che su per le infeste
Dita ridendo noveri
Quante volte il celeste
A visitare Ariete
Dopo il natal mio dì Febo tornò?
A me disse il mio Genio
Allor ch’io nacqui: L’oro
Non fia che te solleciti,
Nè l’inane decoro
De’ titoli, nè il perfido
Desìo di superare altri in poter.
Ma di natura i liberi
Doni ed affetti, e il grato
De la beltà spettacolo
Te renderan beato
Te di vagare indocile
Per lungo di speranze arduo sentier.
Inclita Nice. Il secolo,
Che di te s’orna e splende,
Arde già gli assi. L’ultimo
Lustro già tocca, e scende
Ad incontrar le tenebre,
Onde una volta pargoletto uscì:
E già vicino ai limiti
Del tempo i piedi e l’ali
Provan tra lor le vergini
Ore, che a noi mortali
Già di guidar sospirano
Del secol, che matura il primo dì.
Ei te vedrà nel nascere
Fresca e leggiadra ancora
Pur di recenti grazie
Gareggiar con l’aurora;
E di mirarti cupido
De’ tuoi begli anni farà lento il vol.
Ma io, forse già polvere,
Che senso altro non serba
Fuor che di te, giacendomi
Fra le pie zolle e l’erba,
Attenderò chi dicami
Vale passando, e ti sia lieve il suol.
Deh alcun, che te nell’aureo
Cocchio trascorrer veggia
Su la via, che fra gli alberi
Suburbana verdeggia,
Faccia a me intorno l’aere
Modulato del tuo nome volar.
Colpito allor da brivido
Religïoso il core,
Fermerà il passo; e attonito
Udrà del tuo cantore
Le commosse reliquie
Sotto la terra argute sibilar.
Lezione dall’occasione. Poeta che si lega ai casi della vita, che il più delle volte sono dovuti alla necessità di guadagnarsi il pane, Parini non si lascia distrarre e riconduce sempre l’occasione a parametri morali. E si incontrano punte di orgoglio che rafforzano il giudizio negativo, spesso sprezzante, verso il mondo fasullo che gli sta attorno e dal quale si difende con l’ironia. Qui, mentre parla alla contessa Maria di Castelbarco, esplode la confessione sarcastica: né titoli né potere erano nel suo genio originario, ma lo spettacolo della bellezza nella natura libera. E invece il secolo scende «ad incontrar le tenebre». Nota “strettamente personale”, sul proprio destino mancato, ma buona per ogni lettore ancora oggi.
Vittorio Alfieri Rime, La mestizia è in me natura
Là dove muta solitaria dura
piacque al gran Bruno instituir la vita,
a passo lento, per irta salita,
mesto vo; la mestizia è in me natura.
Ma vi si aggiunge un’amorosa cura,
che mi tien l’alma in pianto seppellita,
sí che non trovo io mai spiaggia romita
quanto il vorrebbe la mia mente oscura.
Pur questi orridi massi, e queste nere
selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti
acque or mi fan con più sapor dolere.
Non d’intender tai gioie ogni uom si vanti:
le mie angosce sol creder potran vere
gli ardenti vati, e gl’infelici amanti.
Malinconia, solitudine, triste senso dell’incomprensione, angoscia. E’ un’idea che ci si è fatta, dei poeti e della poesia, al tramontare della concezione illuministica e al sopravvenire del sentimento romantico. L’Alfieri segna molto chiaramente il momento di passaggio. Oggi, grazie anche al cinema (Il grande silenzio, Philip Groening, 2006), la vita «muta solitaria dura» della Certosa di Grenoble, fondata da S. Brunone nel 1084, ci è meno misteriosa. Tuttavia, la “finzione” poetica della diversità/solitudine del poeta resta tema letterario specchio di un’epoca.
Ugo Foscolo Sonetti, Alla sera
Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago, a me sí cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure, onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
Essere o non essere “agguerriti” verso la vita? Di sera, va a dormire anche lo slancio combattivo, ma è una stasi dinamica, per così dire, non drammatica. La visione tende a oggettivarsi nella natura e il sentimento del tempo si acquieta nella soave sensazione di un’armonia eterna. La “sofferenza” esce dal soggetto e si riscatta in una pace possibile. È forse il momento più alto della poesia romantica, che assume un contegno classico moderno, prima del decomporsi del linguaggio nella frantumazione del Novecento.
Giacomo Leopardi Canti, L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
de l’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e ‘l suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e ‘l naufragar m’è dolce in questo mare.
«Nel pensier mi fingo», qui è la diversità e grandezza del Leopardi: nella piena, esplicita coscienza del linguaggio, della condizione razionale della costruzione poetica. Che, poi, quel suo «pensier» si anneghi nell’ «immensità» dell’infinito è appunto la conferma della “tenuta” della ragione di fronte all’emozione dell’ “immagine”. Erede dell’Illuminismo, romantico per forza di cose, classico nella formazione letteraria, il poeta di Recanati affronta di petto la modernità del riconoscere il vero e del dichiararne la trasfigurazione. Così quando odierà la natura “nemica”: sempre parole chiare, senza alibi.
Giovanni Pascoli Canti di Castelvecchio, La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
E`, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.
Macché elementare! Piuttosto, nel Pascoli, l’ansia di pescare nella profondità dell’infanzia l’elemento primo di un’angoscia del vivere, moderna e psicoanalitica, drammatica, disillusa. È l’ansia di trovare nella culla l’energia per un sentimento di sopravvivenza, che appartiene alla nuova cultura del frammento, del destino spezzato. E la forza, secca come nel Canto intitolato Addio, di cogliere nel particolare consueto il segno amaro del destino: È finita qui la rossa estate. /Appassisce l’orto: i miei gerani /più non hanno che i becchi di gru.
Umberto Saba Il Canzoniere, Lina e la canarina azzurra
« Come a lei t’avvicini emette chiari
argentini suoi ciu così ploranti
che ti feriscono l’anima. Pianti
che vengono dal fondo della vita,
dell’esistere, e trovano la gola
sua d’uccelletta ». « I suoi non sono pianti –
mi dice Lina – tu esageri ». Mai,
se parla a mio conforto, le ho creduto.
Ed una falsa pietà mi ha perduto.
Il poeta è solo. A metà del Novecento i grandi riferimenti ideali sembrano svaniti, circola un aria di psicoanalisi, nel Nordest, dove passa un po’ la cultura europea. Racchiuso nel minimo, Saba vive il tutto come un “quasi”: Quasi un racconto s’intitola la raccolta del 1951. “Quasi”, perché raccontare veramente è forse, ormai, impossibile. Linguaggio e vita vissuta si sposano in una comune sofferenza. Semplicità “casalinga” e falsi sentimenti cercano riscatto nella “verità” di una coscienza profonda, che altro non può essere che confessione, confessione di un racconto rotto, impossibile. Confessione alla compagna Lina? no: a noi lettori (« Mai le ho creduto »), per la nostra disperazione.
Giuseppe Ungaretti Il porto sepolto, San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato.
Economia del valore, fino alla parola singola. Metrica interna, nascosta eppure ultraesibita: misurata sull’unicità dell’evento, del canto. Canto straziato dalla guerra, sussurrato, che non è più nemmeno storia: è il cuore. Amore per il singolo, assoluto: prendetemi come sono, al di là della letteratura innegabile. Il poeta diventa allusione indescritta.
Eugenio Montale Quaderno di quattro anni, Senza mia colpa
Senza mia colpa
mi hanno allogato in un hotel meublé
dove non è servizio di ristorante.
Forse ne troverei uno non lontano
ma l’obliqua
furia dei carri mi spaventa. Resto
sprofondato in non molli piume, attento
a spirali di fumo dal portacenere.
Ma è quasi spento ormai il mozzicone.
Pure i suoni di fuori non si attenuano.
Ho pensato un momento ch’ero l’ultimo
dei viventi e che occulti celebranti
senza forma ma duri più di un muro
officiavano il rito per i defunti.
Inorridivo di essere il solo risparmiato
per qualche incaglio nel Calcolatore.
Ma non fu che un istante. Un’ombra bianca
mi sfiorò, un cameriere che serviva
l’aperitivo a un non so chi, ma vivo.
Anche le cose sono ormai fantasmi. La scena è “vissuta”, come in un vecchio film noir. L’amarezza del vivere ha il sapore di un aperitivo anonimo. La differenza tra un aldilà e un non-so-chi-ma-vivo può essere nell’incaglio del Calcolatore.
Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Eutanasia della lirica? A metà degli anni Cinquanta, sembra emergere una necessità di farla finita. Per paradosso, proprio la morte indica un sotterraneo bisogno di nuovo. Bisogno senza speranza (“sei la vita e sei il nulla”). Muti nel gorgo, questa è la novità. Né romanticismo né illuminismo.
Vittorio Sereni Stella variabile, Altro posto di lavoro
Non vorrai dirmi che tu
sei tu o che io sono io.
Siamo passati come passano gli anni.
Altro di noi non c’è qui che lo specimen
anzi l’imago perpetuantesi
a vuoto –
e acque ci contemplano e vetrate,
ci pensano al futuro: capofitti nel poi,
postille sempre più fioche
multipli vaghi di noi quali saremo stati.
Siamo nel 1975. Lontani i linguaggi sperimentali e i “laboratori” degli anni Sessanta. Ora le conseguenze, anche dure, anche drammatiche, anche politiche. Ma c’è chi non rinuncia alla piena responsabilità delle parole e al loro contatto con l’esperienza quotidiana. E queste parole usa per passare da un”posto di lavoro” a un altro, verso un qualcosa di meno definito, “multipli vaghi di noi”… Nessuna verità, poesia parlata, rottura ma senza esibizione di “cocci”.
Franco Fortini Foglio di via e altri versi, Foglio di via
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.
Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d’acqua i rami degli alberi.
Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.
Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.
La guerra ha “spento tutte le lampade”. Dolore sembra vincere su immaginazione. È sufficiente dire. Ma anche dire è difficile, se tutti tacciono e nemmeno gli amici “riconoscono”. In cerca di contesto, il poeta è ancora una volta solo. Non è però una solitudine “poetica”, letteraria: è una condizione che viene dalla vita vissuta, drammatico evento. Scrivere in versi è quasi un eroismo.
Attilio Bertolucci Viaggio d’inverno, Il tempo si consuma
Sono entrato nella gran folla mista
della messa di mezzogiorno, in cerca
di te, ch’eri là dall’inizio,
bambino diligente, anima pura
affamata di Dio, e con inquieto
occhio ho scrutato fra i banchi
inutilmente.
Ma da una tela umile veniva
incontro alla mia ansia il garzone
di falegname, Gesù, della tua età,
a rincuorarmi, mentre intorno, al fioco
accento del sacerdote lontano
si mescolava l’agitazione terrena
delle ragazze e dei ragazzi tenuti
lontani dal bel sole di domenica.
Così, d’improvviso, in un angolo vicino
alla porta, t’ho ritrovato, quieto
e solo, m’hai visto, ti sei
accostato timidamente, ho baciato
i tuoi capelli, figlio ritrovato
nel tempo doloroso che per me e te
e tutti noi con pena si consuma.
Quadretto domenicale di provincia? Sembra. Ma il linguaggio comune di Bertolucci non è semplice. Il sentimento del tempo è profondissimo e dal momento di vita quotidiana si passa, miracolosamente, al dolore del trascorrere oggettivo. Oggettivo e però non misurabile che negli affetti personali; di padre e figlio in specie, ma non solo “qui e ora”, tanto che basta una «tela umile» per dare il senso di una storia antica. Antica, non “metafisica”, delicata e tattile come un bacio sui capelli.
Mario Luzi Per il battesimo dei nostri frammenti, Vola alta parola
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…
La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?
Una specie di sentimento teorico (teoria del sentimento, sentimento della teoria) si fa soggetto, come prendendo il posto del poeta stesso, e chiede alla parola, da una parte, di volare “alta” (al di là del soggetto), e dall’altra, di non confondere l'”anima” con la “cosa”. Ma è un interrogativo: esistere e parlare non è che una cosa?
Giovanni Raboni Quare tristis, Eroi dispersi
Eroi dispersi, non più o non ancora
mio reggimento oltre il reticolato
della luce, con che povero fiato
mi chiamate, con quanta pena affiorano
dal vocìo del vento che le divora
o le ammucchia come foglie sul lato
dell’ombra le voci che ho tanto amato!
A questo, a queste spoglie fruscianti ora
si riduce dunque il cerimoniale
del verbo… E così sia. Non ho bisogno
di sentirvi, vi tocco come tocca
un cieco la schiena di un animale
fidato, come chi è sordo la bocca
del muto che lo ammonisce in un sogno.
Prima che sia troppo tardi, di fretta, il poeta passa in rassegna i suoi “eroi”/fantasmi. Fluido verso, di corsa fuori, a cogliere un’ultima possibilità di vita. Anche senza vedere, anche solo sfiorando. Da morire.
12 Marzo 2016