LIBRI Cioè, assolutamente sì
Un uomo che da bambino apprese l’uso delle virgole
ritrova l’antologia di terza elementare.
Gli passano parole comuni, suono e rumore, realtà e fantasia;
concetti come bellezza, solitudine, improvvisazione.
Espressioni che suggeriscono un’epoca, come il “cioè” sessantottino.
Attraverso i decenni, ritrova miti e fiabe, scorciatoie ingannevoli e volgari,
mitologie che si traducono in polvere, in un’esistenza fittizia dominata dalla Tecnica…
Ecce hoc est, ecco questo è, ciò (pronome dimostrativo) è: cioè.
Esplicativo: vale a dire. Correttivo: ossia. Interrogativo: cioè? Cioè, la congiunzione/avverbio che ha segnato un’epoca.
Uso intensivo se n’è fatto tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, poi l’eco del senso, dell’uso e del non-uso (avversione), ha lasciato il segno nell’ottavo decennio del XX secolo. La scia (conseguenze) arriva fino a noi attraverso i Novanta, anni che danno implicita e triste continuità all’ interrogativo sanremese (Festival della canzone italiana 1989), cosa resterà degli anni ’80: “Anni vuoti come lattine abbandonate… anni rampanti dei miti sorridenti da windsurf… anni veri di pubblicità.” Scritta da Raffaele Riefoli (Raf) con Giancarlo Bigatti e Giuseppe Dati, quella canzone si è rivelata un raro e tempestivo esempio di autocritica sociale e storica. Va ricordato che proprio nel 1989, solo pochi mesi dopo la manifestazione canora della “Città dei fiori”, la storia è segnata da due eventi dall’importanza anche simbolica molto estesa: la protesta dei cinesi contro la dittatura in piazza Tiananmen a Pechino (15 aprile – 4 giugno) e l’abbattimento del muro di Berlino (9 novembre). La forza negativa del cioè sessantottino, dispersa ma non attenuata, si fa paradosso accettando la cancellazione o addirittura la messa al bando proprio di quelle istanze che aveva rappresentato, anche inconsciamente, nel momento della maggior gloria. Lo svuotamento di senso è tale che, 20 anni dopo, nemmeno fatti eccezionali riescono a riattivare e ridefinire il senso della particella che fu bandiera “rivoluzionaria” e cadde afflosciata nel nulla, in un’impotenza non dichiarata quanto rassegnata. Cioè?
Uscendo dall’era fascista, si era continuato per molti anni ancora a mettere tra una parola e l’altra un “è-vero”, o per maggiore sottolineatura un “n’è-vero”, per dare forza di verità al discorso, specialmente quando il discorso era in caduta di senso e, magari, di verosimiglianza. La multiforme rivoluzione del Sessantotto sembrò spazzare via, tra le molte false sicurezze, politiche morali culturali, anche le figure linguistiche residue del mondo simbolico che si voleva cancellare insieme a quello “reale” – e già qui le virgolette, per evidenziare il rischio della indistinzione inconsapevole, perciò letale, sempre in agguato quando si discorre, tra “realtà” e linguaggio. L’arrivo del cioè fu però la prova della non-valenza delle parole quando queste si sostituiscano, per così dire, ai fatti senza che alla sostituzione gli stessi fatti abbiano dato il consenso.
Il cioè cominciò a pretendere il potere persuasivo prima ancora di svolgere la sua normale funzione dimostrativa o esplicativa/correttiva. Non è ancora estinta la generazione degli allora giovani studenti protagonisti delle prime fantastiche assemblee – non più, improvvisamente, riunioni. Furono, sembrò da un momento all’altro, parole senza gerarchia, alzate di mano frenetiche, spontanee, disordinate; furono interventi in cui la ripetizione (amplificatio post litteram, ma non si poté dire) ebbe veste quasi di prova di verità, furono ammiccamenti sempre più intensi e rapidi, gesti, occhiate, pause, applausi e grida, contentezza diffusa di pensarla sostanzialmente allo stesso modo anche se il traguardo parziale richiedeva spesso molta fatica – o meglio impegno, più giusto. Eravamo studenti e non sembrò vero di poter insistere sulle precisazioni infinite, ore e giornate e nottate, invece della lezione univoca e del professore ammuffito. Da studenti, era normale che ci si applicasse nel dire e che si cercasse, del dire, l’articolazione più ampia – meglio, più “democratica”. E in quel moto iniziale il cioè parve lo strumento idoneo, quasi naturalmente acquisito, dell’articolazione, fu il simbolo di quell’esigenza di parlarne, di “portare avanti” il discorso, di smontare e riformulare il concetto a uso di quanti più si potesse, su e giù per la scala dimostrativa/esplicativa. Non più inutili sforzi nella costruzione delle frasi, bensì liberatoria immediatezza dell’aggiustamento progressivo, magari tortuoso, ma spesso affascinante persino nel suono e soprattutto rassicurante per via dell’unione che dalla parola, dalla parola anche frammentata, si sentiva scaturire a vantaggio delle ragioni collettive.
Da studenti, cioè. Sembrò meravigliosa l’apertura della classe, l’uscita nelle strade e per i prati, la lezione all’aperto senza nemmeno il professore, la contestazione dei programmi e – contestualmente – la decostruzione degli altri “programmi”, che della scuola erano comunque complemento nefasto, della società intera, dell’uguaglianza negata, dell’oppressione sistematica della fantasia, programmi disegnati dall’ingiustizia, cioè. Il cioè divenne sempre più fitto, le distinzioni si accavallarono in un intreccio di formule ripetitive.
Fu la vittoria della reazione nel senso più formale, che, in situazioni di crisi, può identificarsi con il risultato addirittura più consistente perché vistoso, leggibile. Si moltiplicarono le assemblee-bivacco. Arrivò il “Concerto per Studenti e Operai”, tutti dalla parte giusta, cioè. E insieme frustrati dal dover subire l’attacco fascista (si diceva così allora) degli affaristi che nel Free Jazz, per esempio, vedevano la messa in pericolo della loro speculazione di “organizzatori” culturali. Si moltiplicarono anche i teatri “sperimentali”, in sedi proprie e improprie, occasioni quotidiane di spargimento di tendenze, di equivoci comportamentali, di avventate sostituzioni artistiche di istanze affettive usuali. Nelle fabbriche, negli uffici e negli altri posti di lavoro il cioè non fu molto diverso.
Per alcuni la sofferenza fu profonda. Arrivò il momento in cui gli argomenti vennero a mancare, la congiunzione/avverbio fu il nuovo padrone, padrone dei cervelli, delle lingue. In scena e fuori scena, nessuno capì più niente, cioè. Il cioè rimase da solo, a difendere un ideale drammaticamente evaporato – meglio, andato in fumo. Fu il trionfo della scorciatoia. Il cioè da solo, n’è-vero, ma cioè di tutti, nella generale afasia che colpì due intere generazioni e di cui l’eco rintrona nelle nostre coscienze non ancora sopite. Un brivido mi corre per la schiena, quando a volte sento ancora, per la risacca che non sembra esaurirsi, un «cioè voglio dire» di qualche ultimo arrivato a farsi il bagno, non più per il piacere dell’acqua ormai, ma nell’illusione di una pulizia qualunque. Eppure, la cocaina non era così diffusa, cioè. Vagolavamo intontiti dalla nuvola fumogena che ci avvolgeva tra un’improvvisazione e l’altra, è vero, ma il senso della distruzione “necessaria” non era entrato nelle case e nelle periferie. Si poteva ancora apprezzare un disegno geometrico, la misura di uno spazio, la differenza di un colore, di una parola. Non si pensava che quel cioè valesse tanto da farsi farina. E da negarsi ai morti di fame. Da negarsi in Africa. Invece quel vuoto, quell’assenza di significato aveva un peso specifico ben riconoscibile, visto ora: produceva un’implosione fino al nuovo millennio. Ma tranquilli, si direbbe oggi col pugno chiuso e il pollice in alto: Tutto a Posto.
Scrivo dopo lo Strutturalismo e col Pensiero Debole ormai consumato. È bastata un’aspirina per il mal di testa, tipo “ritorno alla grammatica”, e la confusione post prandium è sembrata sciogliersi. La trasparenza elettronica, esito ultimo dell’equivoco iniziale del cinema (foto dinamiche montate, obbiettività dell’obbiettivo) duro a morire, trionfa vigliaccamente nelle case dall’arredo incerto. La vittoria dello “spettacolo della realtà” è talmente progressiva e schiacciante che, all’università, i docenti non sembrano più spaventati di dover fornire le chiavi interpretative e liberatorie dalla dipendenza massmediologica.
I docenti, cioè. Negli anni Settanta, perdurando la gloria della contestazione, accadeva che gli aspiranti architetti trasmigrassero a gruppi verso il Magistero, ottenendo, secondo una logica che allora sembrò ancora normale, di sostenere collettivamente l’esame di Teoria e Tecniche delle Comunicazioni di Massa. Nelle calde estati del terzo millennio vi può capitare di trovare nella buca delle lettere, uno per tutti, un pieghevole che vi stuzzica la curiosità su un tema di cui dovremmo essere tutti un po’ consapevoli, dato che il cinema è una delle forme di comunicazione più diffuse – e lo “conosciamo” anche se non entriamo spesso in una sala cinematografica. Ve lo propone, quel tema, un gruppo di docenti di prima categoria, specialisti in discipline che, direttamente o meno, riguardano il cinema. Il tema è: L’analisi del testo filmico. Alzi la mano chi si sente preparato. E allora pensa a schiarirvi le idee un gruppo di professori riuniti da diverse Università italiane, i quali per l’occasione vanno a formare una specie di nazionale dell’analisi filmica. Un supercollettivo, cioè.
Nella presentazione del tema probabilmente si usa “film” per “cinema”. Infatti subito si specifica lo scopo del corso: una preparazione integrata sugli aspetti testuali, critici e teorici del film. La probabilità che si stia parlando di cinema è non poco accentuata. Più avanti ci si chiede: “Che differenza c’è fra [fra, leggo bene] gustare un film e lavorarci sopra, per analizzarlo nelle sue forme visive e narrative?” E ci avvertono che un film “mostra immagini e racconta storie nello stesso tempo”; e che “il romanzo ha come valenza dominante quella di raccontare storie, e sopperisce con la grande arte della descrizione alla mancanza di aspetti visivi immediati”.
Ma è proprio sicuro che un film non sia meglio gustarlo [gustarlo, leggo bene] e che invece si debba imparare ad analizzarlo? Potremmo immaginare la risposta del super-collettivo: Assolutamente sì. Il percorso, altra parola che ha preso piede, è compiuto. Cioè, all’oscillazione incerta di quel lontano, sessantottesco rimuginare del senso si sarebbe sostituita la smaccata sicurezza dell’assolutamente sì (e dell’assolutamente no), vera e propria autodenuncia della resa di fronte alla progettualità mancata di quattro decenni, il cui nulla rumorosamente rompe il silenzio. Rischiamo di sprofondare tutti in un linguaggio adubitativo, dogmatico, oscuro. Tutti insieme però, si sospetta, potremo salvarci, vivere un fantastico collettivo, giustificati anche fuori dal cinema, s’intende.
Siamo al trionfo del sincretismo involontario, dell’“analfabetismo” gestito da programmisti anonimi. Dunque c’è qualcosa di relativo. Non resta che prenderne atto, riconsiderando con la pazienza dei ricercatori le forme di vita intellettuale, nei momenti che non possiamo (non possiamo che non potere) lasciarci sfuggire. Dunque memoria di dettagli, di geometrie recuperabili al disegno anche minimo di un respiro ripreso, per un’intenzione che non si fermi al primo nuovo cioè.
Per esempio, uno spiraglio. Spunta in Tv – e dove se no? – un programma in quattro puntate (novembre 2010), costruito in tandem dall’ex imitatore radiofonico Fabio Fazio, poi presentatore televisivo del Festival della canzone italiana a Sanremo e conduttore del talk show Che tempo che fa, e dal giovane scrittore sotto scorta, Roberto Saviano, autore del libro sulla camorra, Gomorra, da cui il film “molto vero” di Matteo Garrone – ma già il libro era scritto in modo da sembrare molto poco distante dalla “realtà”. Il programma, Vieni via con me, è un altro talk show, in quattro puntate, basato sull’attualità culturale, sociale e politica. L’”approfondimento” di argomenti e temi prende la forma di elencazione di “dati”, la cui esposizione è affidata a interventi di protagonisti e/o testimoni. Argomenti e temi vengono così “ridotti” a componenti strutturali di una realtà “obbiettiva”, incontestabile in quanto essa stessa contestuale, estratta dal continuum sottinteso e resa esplicitamente “discreta”. La critica di argomenti e temi potrà svolgersi solo a partire dalla struttura scelta e proposta in quella forma scenica, gli elenchi nella loro presentazione “teatrale”, il dire, il recitare, l’affabulare, il muoversi, il gestire, il cantare, il suonare. E in sostanza, il “presentare”. Ovviamente, gli elenchi non si trovano in natura. Di una realtà/situazione/storia data e circoscritta sostituiscono la possibile forma del riassunto con la possibile forma della lista delle componenti costitutive. L’aspetto più interessante della “novità” è l’effetto che fa sul pubblico televisivo: record di ascolto e inusuale eco mediatica. Ma non è che l’arrivo in Tv, dopo un cammino di quasi un secolo: il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure è del 1916. E cioè? Mi viene in mente, come un incubo, una previsione, l’insegnante di scuola media che invita gli alunni a fare elenchi come: Alcune definizioni del popolo italiano, Cose che non avevamo previsto e che invece sono accadute, Quello che per me significa “fare”, Le cose di cui siamo fatti. L’incubo continua, apro una porta e si vede un’altra aula, universitaria. Sto sognando? Assolutamente sì.
Franco Pecori, Cioè, assolutamente sì, in Dicevamo cioè, Ricognizioni tra narrare e comprendere, cap. 7, ilmiolibro.it, 2013.
12 Gennaio 2017